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Incipit.
“Di nuovo il vento si avvicinò alle erbe e le accarezzò con noncurante vigore, le incurvò elegantemente e ci si sdraiò sopra russando, poi le percorse numerose volte e, quando ebbe finito di occuparsene, i loro odori – d’artemisie sapide, d’artemisie bianche, d’assenzio – si ravvivarono.
Il cielo era coperto da un sottile smalto di nuvole. Subito dietro, il sole, invisibile, brillava. Era impossibile alzare gli occhi senza rimanere abbagliati.
Ai piedi di Kronauer, la moribonda emise un gemito.”

La storia (no spoiler).
In un futuro alternativo in cui il marxismo ha fallito e la terra è devastata da incidenti nucleari (è inabitabile e senza risorse), nella Seconda Unione Sovietica, i pochi umani superstiti cercano un luogo qualsiasi per sopravvivere.
Il disertore Kronauer lascia due suoi amici (una è malata, l’altro veglia su di lei) per proseguire da solo la ricerca di un luogo abitabile, con l’intenzione di tornare a riprenderli. Trova il kolchoz Terminus Radioso, abitabile grazie a una pila atomica ancora funzionante sprofondata nel terreno. Il presidente del kolchoz è l’ostile Soloviei, dai poteri soprannaturali (risuscita i morti riducendoli a marionette, controlla le menti, ad esempio quelle delle figlie nel sonno) e immortale, poi ci sono la sua compagna, Nonna Udgul, anche lei immortale, le tre figlie Samiya Schmidt, Myriam Umarik e Hannko Vogulian, immortali, e altri personaggi bizzarri.

L’assedio.
La storia è mossa da un archetipo: l’assedio. Franco Ferrucci, in L’assedio e il ritorno, analizza questo “primo modello narrativo” o “situazione originaria” nell’Iliade, e lo definisce “scontro frontale, il tentativo di impadronirsi del centro” (p. 10).
In Terminus radioso, lo scontro frontale è quello a colpi di carabina tra il mite Kronauer, sospinto dall’ennesima mostruosità scoperta nel kolchoz, e Soloviei, che dal principio considera Kronauer una minaccia per l’equilibrio del kolchoz. Lo scontro, successivo a un lungo inseguimento nel gelo e nel buio, pur non essendo finalizzato all’occupazione del centro (che sarebbe il kolchoz Terminus radioso) bensì alla liberazione dal male (Soloviei per Kronauer; Kronauer per Soloviei), risponde al postulato principale di Ferrucci: “uno dei postulati massimi dell’assedio è che non ci siano né vinti né vincitori ma solo catastrofi in campi avversi” (p. 10).
L’assedio è oggetto della terza di quattro parti del libro, significativamente chiamata amok (le altre sono: kolchoz, elogio dei campi di lavoro e taiga) che, per definizione, è una sindrome culturale del sud-est asiatico di estemporanea furia omicida – quella del mite Kronauer – causata da insostenibile offesa (Soloviei ha tentato, con insuccesso, di usare le sue oscure arti magiche per risuscitare Vassilissa Marachvili, l’amica malata di Kronauer) e seguita da amnesia.

La steppa.
Lo spazio del romanzo è la steppa. La Seconda Unione Sovietica, dopo la catastrofe, è steppa che i personaggi attraversano.
La steppa, dicono Deleuze & Guattari, è spazio “liscio” (in opposizione allo spazio “striato”, spazio delimitato, confinato, tracciato), ossia “campo senza condotti o canali” che “sposa un tipo molto particolare di molteplicità: le molteplicità non metriche, acentrate, rizomatiche, che occupano lo spazio senza «contarlo» e che non è possibile «esplorare se non camminandovi sopra» (Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, p. 542). In assenza di uno Stato (la Seconda Unione Sovietica, dopo la catastrofe, è finita) che “stria” lo spazio su cui regna, tutto, al di là del kolchoz Terminus radioso, è steppa.
La steppa è lo spazio dei nomadi: “il tragitto nomade […] distribuisce gli uomini (o gli animali) in uno spazio aperto, indefinito, non comunicante” (pp. 554-55). Il nomade non si muove, non abbandona la steppa (“il nomade è colui che non se ne va, che non vuole andarsene, che si attacca a quello spazio liscio in cui la foresta si ritrae, in cui la steppa o il deserto crescono e inventa il nomadismo come risposta a questa sfida”, p. 555). Il nomade appartiene a uno spazio che D&G definiscono “assoluto locale” (“un assoluto che trova la sua manifestazione nel locale e la sua generazione nella serie di operazioni locali dagli orientamenti diversi: il deserto, la steppa, il ghiaccio, il mare”, p. 557). Terminus radioso è opera popolata da nomadi.
Siamo ora alla domanda che ci porta al “bardo”:
“fare apparire l’assoluto in un luogo non è forse uno dei caratteri più tipici della religione?” (p. 557).

Il bardo.
La steppa è lo spazio dell’assoluto, ma il luogo primo dell’opera è tale da contenere tutto, anche la steppa: è il sogno.
Ci è d’aiuto, per una maggiore comprensione di questo passaggio dalla steppa al sogno attraverso l’assoluto, Gaston Bachelard:
“L’immensità si potrebbe definire come una categoria filosofica della rêverie. La rêverie, certo, si alimenta di spettacoli vari, ma, per una sorta di spontanea inclinazione, contempla la grandezza. Tale contemplazione della grandezza determina poi un atteggiamento tanto speciale, uno stato d’animo tanto particolare, che la rêverie colloca il sognatore fuori del mondo circostante, davanti ad un mondo che reca il segno di un infinito”.
(La poetica dello spazio, p. 205)
Il bardo, nella religione buddhista, è l’intervallo di tempo che l’anima trascorre tra la morte e la rinascita. Antoine Volodine struttura il romanzo in 49 capitoli, numero non casuale essendo di 49 giorni la durata massima del bardo. Durante il bardo si vive come in un sogno; è uno stato mentale transitorio che troviamo descritto nel Bardo Thodol (Il libro tibetano dei morti), testo buddhista tibetano recitato, secondo tradizione, al cospetto del morente o del morto.
Il sogno, in Terminus radioso, è il segno dei segni. Soloviei riesce a entrare nei sogni delle figlie, ma soprattutto il romanzo vede intrecciarsi sogni, vede confondersi realtà e sogno, vede il sogno inghiottire tutti e tutto, come se i personaggi, senza nemmeno accorgersene, vivessero e morissero e raggiungessero la dimensione intermedia del bardo:
“Come chiunque avesse trascorso più di qualche giorno nei territori vietati, nella steppa crepitante di cavallette mutanti e di plutonio, Kronauer aveva di certo raggiunto l’aldilà del decesso, un punto di non ritorno nel Bardo dei morti”.
(Terminus radioso, pp. 328-29)
Le coordinate di tempo e spazio progressivamente svaniscono: infinito è il tempo oltre la vita, infinito lo spazio della steppa e del sogno. Tutto è bardo, in questa impresa titanica di uno stregone, Volodine, capace di erigere una complessa opera metanarrativa mascherata da incubo, opera che ingenera inquietudine nel lettore poiché gli fa sperimentare il crollo di ogni limite, da quelli della natura (il mondo postatomico è mostruoso) a quelli spazio-temporali (l’infinito) fino a quelli narratologici (la storia principale genera altre storie e muore, le altre storie avvengono nel bardo in cui spazio e tempo cedono al sogno). Il romanzo, di fatto, è inclassificabile: l’autore ha rifiutato il termine fantascienza, c’è azione, c’è del distopico, c’è forse del fantasy, c’è spiritualità, c’è fantapolitica, c’è horror, eccetera.

 

BIBLIOGRAFIA:

Antoine Volodine
Terminus radioso (2014)
traduzione di Anna D’Elia
Roma, 66thand2nd, 2016
pp. 544

Gaston Bachelard
La poetica dello spazio (1957)
traduzione di Ettore Catalano
Bari, Dedalo, 1975
pp. 277

Gilles Deleuze, Félix Guattari
Mille piani. Capitalismo e schizofrenia (1980)
traduzione di Giorgio Passerone
a cura di Massimiliano Guareschi
Roma, Alberto Castelvecchi, 2006
pp. 760

Franco Ferrucci
L’assedio e il ritorno. Omero e gli archetipi della narrazione
Milano, Mondadori, 1991
pp. 103