«Ce l’ho!»
«Non ci credo, fammi vedere.»
«Sì, eccolo! No! Aspetta, maledizione mi è sfuggito di mano…»
«Sei proprio un imbecille. Che aspetti? Vallo a prendere.»
«Non metto la mano lì sotto.»
«Invece sì che ce la metti o lo dirò a tutti quanti.»

La minaccia rimane per qualche minuto sospesa davanti a loro, finché il ragazzino più piccolo avvicina lentamente la mano all’ingresso buio.
Un fronte freddo minaccia il cielo e scuote le chiome degli alberi.
Il vento spazza via foglie ingiallite sotto i portici di legno delle villette silenziose, consiglia di rientrare agli uomini fermi a chiacchierare davanti alle auto, gonfia l’aria di elettricità. Rotola sui tetti, allunga i rami fino a sbatterli sulle finestre.
Si infila sibilando tra gli alberi nel boschetto e smuove i capelli del ragazzino inginocchiato di fronte al tronco cavo di un castagno.
Nel buco oscuro, un rospo si schiaccia nel fango nel tentativo disperato di salvarsi la vita, si mimetizza al tatto della mano grassoccia e insicura che lo cerca.
Il ragazzino fruga nel ventre umido dell’albero e mentre lo fa rabbrividisce, immaginando lunghi millepiedi risalire le sue dita e infilarsi sotto i polsini della felpa. Piccole zampe uncinate che si aggrappano all’epidermide, viscide bestiole pelose che scuotono la sua schiena come frusta. Le foglie e la terra gli hanno inzuppato i pantaloni intorno alle ginocchia, sente la pelle bagnarsi e sa che verrà sgridato e punito da sua madre. Al pensiero, il suo coraggio vacilla, sferzato dai conati di vomito e dalle gocce fredde di sudore che gli colano lungo la schiena, ma sa che molto peggio sarebbe  lasciare al suo compagno, davvero poco misericordioso, l’occasione per sfotterlo a morte di fronte ai loro amici.
Respinge lacrime brucianti in bilico sull’orlo delle ciglia, prova a fermare il pianto che gli sale dallo stomaco alla gola con un’imprecazione.
«Maledetto rospo, figlio di puttana!»
L’altro ragazzino ride feroce, con il coltellino incide un bastone e lo modella a punta, poi ci passa il dito sopra per testarne la capacità. Lo userà, insieme ad altri, per inchiodare le zampe della bestiola a terra e poi gli inciderà il ventre con la lama.
Nel mentre osserva, con estrema calma e freddezza, alzando di tanto in tanto lo sguardo, i movimenti davanti alle case oltre il piccolo pendio.
«Sbrigati, tra poco verranno a chiamarci, sta per piovere.»
«Non riesco a prenderlo, si è infilato troppo in profondità.»
Il ragazzino spinge ancora di più la mano nel tronco, inghiottendo ampie sorsate d’aria come se stesse per immergersi con tutto il corpo. Finché sente un piccolo sibilo, come di una zip che si chiude velocemente.
«Be’, allora me ne vado» dice l’altro, con aria annoiata. Si alza in piedi, scuotendosi di dosso trucioli e foglie.
«Aspetta…»
«L’hai preso?»
«No, la mia mano… è incastrata.»
Il ragazzino inclina la testa di lato e, dopo un momento di silenzio, ride mostrando i denti con sguardo sprezzante. Lo osserva come fosse una faina intrappolata in un laccio, le ginocchia che scavano solchi profondi nella terra, il corpo che si scuote nel tentativo di liberarsi.
«Aiutami!»
«E cosa dovrei fare?» dice ridendo.
«Tirami via!»
«Smettila di starnazzare, ci sentiranno. Chiudi la mano, forse viene via…»
«Ci sto provando, c’è qualcosa che mi stringe il polso, forse una radice. Ahi!»
Il ragazzino tira il braccio del compagno, ora anche lui scava con le scarpe nella terra. Tira sempre più forte, ma il braccio non si libera e lui grida per il dolore.
«Niente da fare» dice, alzandosi e ripulendosi nuovamente.
«Dove vai?» balbetta.
«Vado a chiamare tuo padre, mi pare ovvio che non posso aiutarti io.»
«No, non lasciarmi da solo… ti prego!»
Lo dice e immediatamente se ne pente. Abbassa lo sguardo fino alle sue ginocchia, incrostate di terra e foglie.
Ma l’altro non ride né lo sfotte. Si guarda intorno e poi alza lo sguardo al cielo; un velo plumbeo è calato su ogni cosa, spegnendo i gialli, i verdi. Persino la felpa vermiglia del ragazzino ha virato verso un cupo porpora.
«Faccio una corsa, dai. Torno subito.»
Si infila il cappuccio e scatta via lungo il pendio, senza aspettare la replica.
Il ragazzino lo segue finché può con lo sguardo, lo vede sparire oltre la curva dell’erba, piegata dal vento. Un groppo in gola gli blocca il respiro e poi subito il bosco attira la sua attenzione, con tutti i suoi rumori. Il fiato affannato forma piccole nubi di vapore nell’aria fredda. Le prime grosse gocce di pioggia colpiscono le foglie, poi l’eco del canto di un merlo che si alza in volo, lasciando i rami a sbattere fra loro.
Il polso gli duole terribilmente e non sente quasi più la mano, ma un fastidioso formicolio lungo il palmo e il pollice. Si impone di stare tranquillo e perciò si sdraia, poggiando la testa sul braccio teso. Cerca di dare un nome di animale a ogni verso, una giustificazione a ogni scricchiolio finché si addormenta, esausto.

Foto di Simona De Marchis

Foto di Simona De Marchis

Quando riapre gli occhi, non vede più niente. Forse sta ancora sognando. Nel sogno crede di trovarsi all’interno del tronco, perché percepisce fortissimo l’odore di terra bagnata. Gli sembra di averla addosso, anche sul viso e sul collo. Ma poi si muove e tira il braccio, e dalla mano partono strali di dolore che gli arrivano fino alla spalla. Prova a spostarsi e capisce che non sta sognando, è davvero buio e lui è ancora lì, nel bosco, da solo.
Si accorge però che può spostarsi dal tronco; forse nel sonno la mano si è liberata, forse l’agitazione non gli permetteva di sfilarla, prima, allora tira via il braccio dalla cavità, che è ancora completamente addormentato. Sembra fatto di cemento. Si massaggia il polso, non può vedere se è ferito, né lo capisce per via del fango che lo ricopre.
Si alza, si scrolla di dosso la coltre di foglie di cui era stranamente ricoperto. Si tira su il cappuccio con l’altra mano e comincia a camminare guardandosi attorno nel tentativo di orientarsi.
Poi, attraverso gli alberi, scorge le luci delle case del quartiere, sotto il colle, e segue il loro baluginare fino a uscire dal bosco.
Il cielo si è liberato ed è pieno di stelle.
La sua felpa è zuppa ma lui non sente freddo, ha solo molta fame. Cammina nell’erba, scendendo il pendio, finché i suoi piedi non incontrano il cemento.
Le case hanno i vetri appannati, i tetti sono lucidi per la pioggia passata. La sua casa, dietro il grosso cespuglio di bougainvillea bianca, sembra tranquilla, dalle finestre permea una luce calda e ospitale.
Man mano che si avvicina, il ragazzino scorge i suoi vestiti sporchi. Aspetta di essere sotto il lampione per ispezionarsi il braccio. Non riesce a muovere bene la mano, gonfia e livida, la pelle intorno al polso è segnata profondamente ed è rossa di sangue.
È stranamente calmo, pensa solo a quanto sia stanco. Vuole entrare in casa, essere abbracciato, vuole mangiare. Dalla porta finestra vede suo padre, seduto sul divano a guardare la tv. Sua madre non c’è, immagina che sia in cucina. Perché non lo stanno cercando?
Entra.
Sul pavimento di legno si allargano macchie di fango, le sue scarpe sono tanto rovinate, addirittura aperte sulle punte.
Rimane sullo stipite, in attesa che qualcuno gli vada incontro e gli dica di togliersele, lo abbracci o lo sgridi.
Suo padre si volta a guardarlo. Si alza dal divano e lo raggiunge, ma poi passa oltre e chiude la porta dietro di lui, come se non l’avesse visto. Vorrebbe chiamarlo ma non riesce a parlare bene, dalla sua gola esce un suono gutturale e sconosciuto.
Rimane lì, vicino alla porta, per un tempo indefinito. Guarda suo padre, i suoi occhi senza espressione, tornare a sedersi sul divano, poi rialzarsi, andare in cucina, prendere un bicchiere, tornare a sedersi.
Lo vede allungare la mano verso il mobile vicino al divano. Tira fuori una bottiglia di brandy vuota per tre quarti e si riempie il bicchiere.
Beve tutto il contenuto. Riempie nuovamente il bicchiere e lo vuota, così ancora per un altro giro.
Dov’è sua madre?
Decide di salire le scale. Si muove lungo la stanza lasciando dietro di sé impronte scure e umide.
Il legno delle scale scricchiola debolmente, sotto i suoi passi.
Percepisce il movimento fulmineo e sospettoso di suo padre, nel salone, sente che si sta alzando per vedere la natura dei rumori.
Quando poggia la mano sulla balaustra si accorge di avere un pezzo di legno appuntito conficcato nel palmo. Rimane a fissarla per un po’, la sua mano sporca di fango e sangue rappreso. Riconosce il bastone che il suo amico lavorava con il coltellino, prima di abbandonarlo nel bosco. Pensieri terribili gli invadono la mente.
«Non posso pensarci adesso» si dice, e continua a salire le scale.
Oltrepassa la porta della sua camera e quella del bagno e in fondo al corridoio vede la porta della stanza dei suoi genitori, semichiusa. Una luce calda e rosata filtra dallo stipite.
Avvicina il viso alla fessura, guarda all’interno con un occhio.
Sua madre è stesa sul letto, in posizione fetale, guarda verso la finestra i rami che si muovono al vento e bussano ai vetri.
Il suo profumo gli arriva alle narici, inspirata scende in profondità nei polmoni. Quando sospira sente un gelo all’altezza della gola e dello sterno, come se fosse nudo al freddo.
Ha paura a toccarsi, sa cosa incontrerebbero le sue mani. La sua felpa rossa ha una grossa macchia al centro,  proprio dove c’è la scritta bianca; dev’esserci una brutta ferita, là sotto.
Che giorno è? Quanto tempo è trascorso dal pomeriggio in cui ha deciso di seguire il ragazzo nel bosco?
I fianchi di sua madre sembrano il posto migliore in cui stare e tra le sue braccia non avrebbe più bisogno di nulla, svanirebbe ogni pensiero, le domande cadrebbero a terra, inerti.
La porta si apre davanti a lui lasciando entrare il corpo di suo padre. Lo vede avvicinarsi al letto e sedersi accanto a sua madre.
Il ragazzino entra nella stanza, vuole stare in mezzo a loro, i suoi passi sul tappeto fanno lo stesso rumore di quelli nell’erba, le sue ginocchia frusciano sul tessuto del copriletto mentre vi si arrampica come aveva fatto mille volte prima. Si avvicina al corpo di sua madre, allunga il braccio, vi appoggia sopra la testa arruffata, aderisce alla schiena di lei, si accorda perfettamente al suo respiro e, finalmente, chiude gli occhi.

Il mattino dopo sua madre non è più accanto a lui, sul letto, né c’è suo padre. Le lenzuola sono state tirate via e portate nel cesto della biancheria, insieme al tappeto della camera.
Neanche il ragazzino è più sul letto.
I gradini delle scale sono disseminate di piccole orme fangose, che proseguono nel salone fino alla porta e si perdono nel portico, che riluce sotto i forti colpi del sole.
Dal giardino provengono dei suoni, alcuni sospiri, dei sussurri. Sotto la pianta della camelia, i genitori del ragazzino guardano verso i loro piedi. L’uomo tiene un braccio intorno alla spalla della donna. La donna ha una mano sulla gola, gioca con una catenina d’argento.
Adagiato in una buca nella terra, vicino a una radice nodosa, sta il corpo di un grosso rospo. Ha il ventre bianco aperto da uno squarcio, le zampe ferite.
«Come avrà fatto ad arrivare in camera, questa bestia così malridotta?» chiede l’uomo a sua moglie. Lei non risponde.
Si china e lo gira su un fianco, non può vederlo così; gli dona il suo sguardo più pietoso, poi lo ricopre con le mani bianche e gentili, mentre il sole trafigge la pianta e sigilla la terra.