Prendi un bicchiere di vino.
Te lo verso mentre i tuoi occhi sono ancora aperti, ma non del tutto. Come in quella parte del giorno in cui le forze del corpo vengono meno, ma noi resistiamo stoicamente. Davanti alle televisioni.
I tuoi occhi sono fissi su di me, e nella fissità del tuo sguardo, lo sfondo sfocato delle luci fuori dalla finestra, le piccole sfere arancioni e verdi, le scie luminose dei fari, palpitano e fanno liquidi i vetri della finestra.
Possiamo immaginare di essere in un acquario? Il silenzio può andare. Il buio nella stanza è come il fondo delle fosse e noi due siamo pesci abissali.
Un rumore, una goccia piccola ma risoluta che si stacca dal rubinetto e s’infrange sul lavandino, il profumo non più forte della carne e dell’aceto balsamico, insieme alla cura meticolosa impiegata nel preparare ogni cosa, evidente in ogni angolo dell’appartamento: tutto questo è il liquido dove noi nuotiamo.

Voglio raccontarti una storia che non conosci.
Quando ci siamo conosciuti, al Beano’s, ricordi?
No, tu fai risalire il nostro incontro alla sera dell’incidente a casa di Beatrice. Hai sempre detto di esserti accorto di me quella sera. Perché nonostante il panico dilagasse nella stanza io ero rimasta lucida, perfettamente funzionale. Ero riuscita a prendere Beatrice per i fianchi e a spostarla dal camino, mentre ancora i suoi capelli biondi scoppiettavano lanciando scintille ovunque. La sua faccia delicata si era trasformata in una maschera informe: non esistevano più le sopracciglia, era tutto un grido, la sua bocca deformata in una gigantesca “o”.
La feci sdraiare e lei mi guardava con gli occhi sbarrati, privi della pietà delle palpebre. Mi entrava dentro con quello sguardo. Poi svenne per il dolore. Solo allora cominciai a impartire ordini ai presenti inebetiti: chiamate i soccorsi, prendete un cuscino…
Tu eri l’unico a guardare me invece che la povera Beatrice trasformata in un Munch sul parquet del salotto dove, solo un attimo prima, inciampava nei tacchi altissimi con un vassoio pieno di tartine nelle mani.

Il Beano’s, due settimane prima.
Era tutto normale. Una serata noiosa, direi. Ci hanno presentati, mi sono seduta di fronte a te, non ci hai badato.
Hai rimandato indietro la birra perché non conforme alle tue richieste e te ne hanno portata un’altra. Poi hai parlato di quel film, ricordi?
Non ti era piaciuto, non ne facevi certo mistero. Non si capiva dove il regista volesse andare a parare, hai detto. Allora io l’ho difeso, il regista. E anche l’opera. Tu non hai replicato; per te ero come un’ordinazione non conforme ai tuoi gusti, qualcosa che muoveva la bocca ma da cui non fuoriusciva il suono che volevi. Certo, non potevi mandarmi in cucina per un cambio adeguato, mi hai semplicemente rimosso dai tuoi ricordi.

Nell’acquario adesso siamo di nuovo di fronte: io sono predatore, il colore rosso che mi tinge le mani ne è testimone, e tu preda ipnotizzata.
Il vino quasi trabocca dal calice, denso.
Sei scomposto; le mani lungo i fianchi oltre la seduta, i piedi allungati sotto il tavolo.
La camicia sotto il tuo maglione ha il colletto storto. Ma sei sempre tu, in fondo. Solo più smorto del solito.
Quella sera, dopo essere usciti dal locale, io ti ho seguito fino a qui. Per strada non c’era nessuno e tu camminavi curvo e infreddolito, nel tuo cappotto lungo, forse un po’ troppo caldo per l’autunno. La tua figura alta e sinuosa, così perfettamente nera nello sfondo umido della strada coperta di foglie e barbaglii di luce.
Ti ho visto aprire la porta, nascosta dietro il muro di un palazzo; avevi sempre la faccia immersa nello schermo del telefono. Poi mi sono spostata per vederti entrare nel salotto, dalla finestra che dà sulla strada.
Ti ho osservato, a lungo. Sembravi un piccolo animale vagante in una gabbia, però hai fatto quella cosa.
È stato allora che ho capito.
Sei uscito sul balcone con qualcosa stretto nel pugno. Hai sistemato sulla ringhiera una pacchetto di sigarette e l’accendino e hai guardato per lunghi istanti davanti a te, come se stessi aspettando qualcosa, o qualcuno. Poi hai aperto la mano e hai avvicinato le punte delle piccole forbici all’altro tuo palmo aperto. E hai iniziato a spingere, spingere, finché con un movimento più deciso le forbici sono entrate e un leggero tremore ha percorso le tue dita, piegate con grazia come i bellissimi rami biancastri e privi di foglie dei faggi in inverno.
Il dolore ha tardato; il sangue doveva colarti lungo il palmo, così sensuale – immaginavo – e poi sul tuo viso è affiorata una smorfia di piacere.
Eri tu ed era strano che fosse un uomo, perché ho sempre creduto che sarebbe stata una donna, la mia prima.
Avrei potuto farlo già quella sera, forse con una scusa mi avresti fatto entrare in casa, ma volevo aspettare, rimandare il momento.
Sapevo che c’era un volere più alto che ci aveva messi di fronte, e quello stesso volere ci avrebbe dato un’occasione.
Non è forse questa la passione? Riconoscere il potenziale dell’altro e lasciare che ci attragga, che ci trascini con sé nel suo vortice?
È quella sera che è cominciata la storia di noi due.
Dopo hai fumato una sigaretta, senza provare a pulirti la mano, e io quella notte l’ho trascorsa sotto la tua finestra, finché non si sono spente tutte le luci.
Questo è stato il nostro primo incontro.

Abbiamo fatto tutte le cose normali che fanno tutti, in questi quindici mesi.
Stamattina siamo andati a fare colazione in quel posto, tu vuoi sempre andare lì non per la barista, come credevo all’inizio, ma solo per il caffè, per quella tua incapacità di scendere a compromessi sulle cose che mangi e che bevi e che ho trovato sempre francamente assurda. La tua mano destra era perfettamente guarita e io mi sono chiesta quali altri luoghi fossero adibiti al tuo doloroso piacere.
Mi hai lasciato davanti al portone dell’ufficio e salutato senza – di nuovo – staccare gli occhi dal telefono. Te ne saresti accorto, altrimenti. Come quella sera.
Ma anche se fosse, anche se mi avessi guardato bene, forse non ci avresti creduto.
Perché tutte le tue credenze riguardano cose tangibili, tracciabili, misurabili. Credi nella miscela del caffè, nella durata della luce gialla del semaforo, nelle bollette da pagare entro il 13 del mese.
L’unica cosa che riesce a illuderti di essere vivo è l’appuntamento con le forbici.
Io invece ho sempre creduto nell’invisibile, nell’anima.
I corpi sono solo corpi, e fin da quando ero bambina, vedendo le persone care morire, ho capito che non ai loro corpi ero legata, ma a quel respiro estremo che abbandonandoli si fondeva con l’aria, e saliva verso l’alto, oltre le polveri, oltre la troposfera, oltre la fascia degli asteroidi, dove io non potevo più sentirlo.
Eppure quando ti ho incontrato ho sentito – sentire, ecco il punto – che la tua doveva essere speciale.

Le punte delle forbici non si vedono ma sono certa che si trovino sotto il tuo pomo d’adamo. L’impugnatura è appoggiata alla spalliera e ti permette di restare seduto, senza scivolare a terra. C’è voluta molta forza per mandarle in profondità, ma io ne ho tanta e tu non hai opposto molta resistenza.
Ecco, è finita.
La specialità della tua anima è quella di restare in questa stanza, di essere così densa da non riuscire a salire.
Mi alzo per aprire la finestra. Poi ti accarezzo i capelli e l’impugnatura fredda e liscia delle forbici che fuoriesce dalla nuca.
Ora sento di essere perfettamente sincronizzata. La sfasatura che sentivo, lo scollamento, il gap, è sparito. Se mi volto non vedo più un’altra me che mi fissa con un sorriso, in attesa.
Grazie, per il tuo aiuto. Ti amo per questo.
Sento che la tua anima si muove nel buio, silenziosa come un puma.
Cammino verso il divano e guardo fuori dall’altra finestra ancora chiusa, che vibra come se la scuotesse il vento.
Forse è questa che devo aprire, per farla andare via; è affascinante e vorrei tenerla ancora qui, per capire meglio la sua natura, ma provo timore.
Mi avvicino per aprire la finestra ma poi sento la tua voce.

Sei in piedi, dietro di me, posso vederti dal riflesso della finestra.
Stiamo fermi, nel silenzio.
Ti vedo sorridere nello stesso modo in cui mi sorrideva l’altra me, la sfasatura.
E d’improvviso afferro un senso che continuava a sfuggirmi.
Ti sorrido.
La tua anima è tornata dentro di te, dico.
Ti mostro come, dici.

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Immagine di copertina: Simona De Marchis.