Il pensiero.

Matteo Meschiari (1968) è poeta e narratore, ma innanzitutto uno studioso di antropologia e di geografia che da anni pubblica saggistica su wilderness, paesaggio, spazi – Liguori, Meltemi, Mucchi, Quodlibet, Sellerio e altre, le case editrici. Questi stessi temi, infatti, si riversano nei versi e nella prosa, nella letteratura, senza patire il salto di campo e ampliando il target di lettori: Meschiari racconta storie, anche quando affronta concetti, e questione di vitale importanza, per lui, è continuare a coltivare l’immaginario.
L’attuale visione di Meschiari è apocalittica: depauperamento delle risorse, sovrappopolazione, scioglimento dei ghiacci, il declino culturale dell’uomo e l’uomo come specie a rischio, questi sono solo alcuni dei punti nodali da lui affrontati che interessano presente e futuro del mondo. La sua prospettiva, tuttavia, non è disperata ma lucida: non si tratta di abbandonarsi alla fine dei tempi ma di attuare strategie di sopravvivenza che sono sempre possibili. Lo si evince da una risposta che lo studioso dà in un’intervista curata da Paolo Risi e pubblicata il 2 gennaio 2018 in Zest – Letteratura Sostenibile:

Bisogna fare un libro dove si spiega con sole figure come si scuoia un coniglio o come si costruisce un flauto o come si fabbrica un tangram da un pezzetto di cartone. Perché i nostri figli e i nostri nipoti non avranno più i cellulari o Google e non sapranno come fare a macellare e cuocere un animale o come far giocare con niente i propri cuccioli. Un libro di sopravvivenza dell’immaginario soprattutto. Durante l’Era glaciale ciò che davvero ha salvato i nostri antenati dall’estinzione non è stata la tecnologia ma il fatto di dipingere animali sulle pareti di una grotta. Quegli animali non erano – come banalmente si dice ancora – delle sagome per propiziare la caccia. Erano mondi alternativi. Erano dei “come se”. Delle utopie. Dipingendoli e ammirandoli l’uomo ha tenuto duro perché aveva qualcosa in cui vedere una specie di paesaggio alternativo. […] Ovviamente non credo di poter cambiare le cose scrivendo paesaggi. Ma è la mia personale tattica di resistenza. I paesaggi sono i miei animali privati dipinti sulle pareti della grotta. E forse i paesaggi della terra con quello che ci dicono di noi potrebbero essere gli animali nella grotta di un’umanità sul bordo dell’abisso. Forse il grido dei paesaggi potrebbe svegliarci. Forse. Non lo so.

Meschiari non propone mai un percorso a ritroso: non è possibile cancellare gli errori commessi. È possibile invece avere un rapporto rinnovato e sano con la natura, con gli spazi, con gli animali, è possibile tornare a porre la Terra al primo posto rispetto alle logiche spesso nefaste del mercato, ristabilire la centralità dell’immaginario.

Che cos’è fondamentale? La comprensione che il tempo non è reversibile, che le modificazioni dello spazio non sono cancellabili, che ogni azione, anche quella che si vuole più irrisoria, è per sempre. Il punto è capire che la nostra mente fa parte di questo ecosistema, lo modifica e ne è modificata. Un’ecologia naturale non può esistere senza un’ecologia della mente, e a ogni guasto in natura corrisponde un guasto nella mente. Prima di cercare le cause esterne della distruzione, dobbiamo cercare quelle annidate dentro di noi. E la più grave di tutte è il nostro abbandono della terra.
[Primitivo/Primario, in Geoanarchia, p. 54.]

Artico nero. La scrittura e l’impegno.

Artico nero è una raccolta di sette storie per la quale è stato coniato il termine/genere antropofiction: “fatti” di antropologia trattati con gli strumenti del narratore, incontro felice tra scienza e letteratura.
Sono storie del nord del mondo, di ghiacci, cani e mammut, di popoli in fuga o soggetti a errori e orrori dei governi, di colonialismo, di crudeltà, di mutamenti sociali imposti dalle circostanze, storie che, secondo Meschiari, possono mostrarci cosa ne sarà del mondo: “le terre all’estremo nord sono uno specchio del prossimo futuro. Guardarle significa guardare il mondo tra qualche anno” (p. 99).
L’impegno dello scrittore si dispiega nel pensiero che è la ragione e la base dell’opera, e si manifesta in modo esplicito nello stesso testo. Meschiari non è esterno alla narrazione, è un narratore empatico, che commenta, cede alla rabbia, percepisce e comunica il dolore, le questioni narratologiche sono secondarie rispetto al fine del libro:

Mi scuso in anticipo. Mi dilungherò un po’ su questa faccenda della neve. Va bene raccontare storie, ma questo libro ha anche la presunzione, oltre che di abbaiare contro lo stupro dell’Artico, di spiegare il colonialismo e i suoi trucchi. Alcol, stato di diritto, silenzio e disinformazione, modelli fuori portata, promesse non mantenute, denaro e diversificazione della povertà. Ma soprattutto la costruzione scientifica dell’Altro.
[p. 72.]

Lo stile stesso, a tratti lirico e retorico, dimostra che la narrazione è al servizio del pensiero, della militanza. Il libro se ne giova in quanto riesce a comunicare al lettore: la scrittura di Meschiari è innanzitutto comunicazione, comunicazione letteraria, certo, ma ciò in quanto la letteratura è utile al messaggio. D’altro canto, in Geoanarchia, nel saggio Primitivo/Primario, Meschiari non ha alcun dubbio sul ruolo che deve assumere l’arte:

L’arte pensata al di fuori di un ecosistema è astratta. La sua astrazione può avere senso, può essere coerente, può avere un valore estetico, ma tagliare i legami con la terra equivale a tradire una parte essenziale di noi. Significa escludere una parte del cervello che proprio sul modello del mondo naturale ha sviluppato la propria ecologia.
[p. 49.]

L’elemento primario va cercato nella terra, non nell’arte, e un’arte che non osserva la terra è responsabile di una doppia morte, quella del mondo e della propria.
[p. 55.]

Neghentopia. La fiction.

Con Neghentopia Meschiari sperimenta la fiction: si tratta, infatti, di un romanzo in forma di sceneggiatura – il modello è proprio una sceneggiatura, Fitzcarraldo (1982) di Herzog – fitto di riferimenti letterari e cinematografici – La strada (2006) di McCarthy, Volodine, Stalker (1979) di Tarkovskij –, con una colonna sonora che va dall’elettronica al canto tradizionale mongolo, arricchito dalle illustrazioni di Rocco Lombardi.
Il protagonista è un ragazzino-killer, Lucius, che soffre di amnesie – ancora un riferimento cinematografico: Memento (2000) di Nolan –, che attraversa spazi vasti e aridi in compagnia di un animale-guida, un passero parlante, e che si sente inseguito da una Bestia. Il viaggio è un vagabondaggio più che una fuga, e la meta e lo scopo assumono un senso solo nel finale – fino alla fine ci si perde nel vuoto del paesaggio e nel vuoto della memoria.
Neghentopia – ibrido, sperimentale, citazionista – è un testo le cui scelte, sempre meditate, possono rappresentare dei limiti per la fruizione e per il godimento della lettura: la forma è frammentaria, il ritmo spezzato; si eccede in pathos nei dialoghi – pathos finalizzato a evocare il “sentimento della fine” più che a conferire spessore ai personaggi; le descrizioni, ridotte al minimo nel pieno rispetto della forma adottata, diminuiscono la presa del testo sul lettore abituato a leggere tutt’altro.

[sempre fuori campo]

Voce 1 Chi sei?
Voce 2 Il tuo passero. Sono venuto per te.
Voce 1 E io? Non mi ricordo.
Voce 2 Lucius. Tu sei Lucius.

La mano sporca di polvere si chiude sul passero. Si ritira e scompare tra gli stracci. I tiranti di acciaio tintinnano.
[p. 17.]

Permane il dubbio che alle ambizioni alte non corrisponda una resa altrettanto alta.
Tuttavia Neghentopia resta un libro salutare in un panorama letterario/editoriale italiano volto alla scrittura facile, rassicurante, prono alla legge dei numeri, alle vendite, fino al punto da destinare la Letteratura alla nicchia, da desiderarne quasi l’estinzione – non che si debba confondere il letterario con lo sperimentale e non che non abbondino libri che di letterario hanno solo la presunzione; semplicemente le si devono addebitare il coraggio, la cura meticolosa per stile e struttura, il rifiuto di allinearsi al “piacevole” e alle mode, di ammiccare sempre al lettore nella falsa convinzione che sia allergico alla qualità e incapace di fare sforzi e senza accorgersi che da anni lo si sta sottoponendo a una cura mitridatica: l’abitudine a libri facili, che non fanno pensare, salvo sempre più sparute eccezioni (e lo status di eccezione riguarda non tanto la rarità dei casi, quanto la poca o nulla incisività degli stessi in termini di vendite e quindi di lettori raggiunti).

Matteo Meschiari:

Artico nero. La lunga notte dei popoli dei ghiacci
Illustrato
Roma, Exòrma, 2016
pp. 166

Geoanarchia. Appunti di resistenza ecologica
Con illustrazioni originali di Claudia Losi
Armillaria, 2017
pp. 147

Neghentopia
Illustrazioni di Rocco Lombardi
Roma, Exòrma, 2017
pp. 163

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In copertina: immagine di Claudia Losi, in Geoanarchia. Appunti di resistenza ecologica, Armillaria, 2017.