Tutto ciò che vediamo o sembriamo non è altro che un sogno in un sogno.
Edgar Allan Poe

 

Lunedì tredici novembre, il primo giorno di visite.
Le otto e trenta, la gente sarebbe arrivata dalle nove in poi ma il signor Morella si rigirava ancora nel letto, gli occhi al soffitto, farfugliando frasi incomprensibili. Non era matto lui, no, e di certo non aveva sognato in quella notte che era finita insieme a tutto il resto, nell’oblio del nulla.
Che fatica alzarsi, pensò, succede quando si insiste con le brutte abitudini. La faccia abulica e gli occhi gonfi da rana tradivano la condizione di alcolizzato. Aveva un aspetto orribile ma non gli importava, non potendo vedersi: la specchiera sopra il lavabo non c’era più, come quasi tutto il mobilio.
Fai schifo, puzzi come una capra! gli aveva urlato sua moglie.Quando? Ieri sera? Ma no, se n’era andata via mesi fa! Era tornata dai suoi, in Calabria, insieme alla piccola. L’aveva lasciato solo a gestire il disastro, lui, il vino, le sigarette e la speranza, l’ultima a morire o così dicono, almeno.
Dimenticati di noi, per te non esistiamo più! E quindi addio.
Otto e quarantacinque e mica s’era alzato. Ancora a letto, il signor Morella si contorceva rovistando nella tasca dei pantaloni sporchi di calce fresca, per terra, ai piedi del letto. Cercava le sigarette, un pacchetto quasi vuoto con dentro l’accendino granata Forza Toro. Finalmente riuscì a bruciarsela, la sua Diana blu mattutina. Il fumo entrava nella bocca sabbiosa di sonno scatenandogli il solito raschio di tosse, un segno di vita, almeno. Si grattò sotto le ascelle: stava indossando la stessa camicia di pile a quadri da almeno… venti giorni? Si era abituato in fretta alla sporcizia e non faceva neppure più caso al disgusto negli occhi degli altri.
Come la donna che aveva sposato, che forse era tornata dalla Calabria per vederlo, ieri sera, o forse no. O come quell’altra donna, fin troppo truccata e profumata. La cosa lì, la curatrice fallimentare. Il signor Morella si ricordava bene quando entrò in casa sua. Almeno un mese fa. La tipa teneva sottobraccio una cartella piena di documenti, solo per darsi un tono, infatti se ne andò senza aprirla. Chi la capiva quella? Parlava a razzo, anche tutto quel bla bla, ne era sicuro, faceva parte della scena.
C’erano da sistemare le problematiche dell’asta, diceva la signora, i documenti, le firme e tutto il resto. Tutto il resto era la vita del signor Morella, ma lui mica ci fece caso, stava fissandole le gambe pensando alla parola pignoramento. Veniva forse da pigna? Pigna secca, pignone, pignoleria, bah. Belle gambe, però, per chi ancora aveva certi stimoli, almeno. Il signor Morella no, era un uomo che non aveva più niente a parte i suoi quarantadue anni, che poi non erano suoi neppure quelli, a ben vedere. Erano del tempo che gli era passato sopra senza fermarsi, schiacciandolo per bene sulla strada.
La casa in cui viveva non era più sua, era ospite lì, un fantasma con lo sfratto pendente sulla testa.
Tutta quella roba, i pavimenti e i muri sporchi, il tetto e il giardino, tutto era proprietà della banca.
Non doveva più neanche piantarci un chiodo, lì dentro, l’avevano avvisato, il perito aveva fotografato tutto, o quasi tutto. In quelle foto certo non si vedeva l’aria stantia e irrespirabile che stagnava nelle stanze. Una nube carica di fiato greve che non avvertiva neanche più e che presto avrebbe sloggiato da lì, insieme a lui, una volta chiusa l’asta e nominato il vincitore.

Non era stato sempre così, il signor Morella ogni tanto se lo ricordava con tristezza. Prima di allora era un artigiano, aveva la partita iva, una famiglia, quella casa lì, il furgone dalla portiera con la scritta EdilMorella e il disegno di un muro che ride, l’aveva fatto sua figlia.
I muri ridono? Per la sua bambina sì, ridevano tra un mattone e l’altro, diceva lei, bella stella.
Poi, in un pugno di mesi, via tutto: partita iva, furgone, muro che ride e soldi. Iniziò l’era dei debiti, dell’ansia e delle telefonate dei creditori.
E la famiglia? Via anche quella. Il signor Morella rincasava quasi tutte le sere ubriaco fradicio. Di giorno in giorno divenne sempre più scontroso e irascibile, urlava improperi alla moglie e alla figlia, fin quando non cominciò ad alzare le mani. Un certo giorno si ritrovò solo, a piangere e bestemmiare Dio e la Madonna, ricordando solo cattiverie, elaborando pensieri tanto confusi quanto terribili.
Tu sei pazzo furioso, fai schifo, noi ce ne andiamo, hai capito? Furono le ultime parole che ricordava della moglie, abbracciata alla bambina che piangeva. Quando si ritrovò solo, il signor Morella prese a calci tutto quello che c’era: sedie, piatti, quadri e giocattoli della figlia, nulla si salvava dalla sua furia.
Tutta colpa della crisi, ne parlavano da anni, in paese. Maledetta crisi, urlava lui schifato, a forza di parlarne l’hanno fatta arrivare anche qui. Colpa del governo e del sindaco e dei giornali e delle televisioni e dei cinesi e di un sacco di altra gente e della madre di sua figlia, proprio lei che doveva stargli vicino.
Colpa tua, invece, che non hai saputo reagire; guardati, dove hai la testa? gli rispondeva sua moglie, parole come pietrate e la bimba che piangeva e supplicava: Basta, mamma, ti prego, andiamo via.
Scapparono con la paura e i vestiti che avevano indosso, il signor Morella non cercò neppure di fermarle. Tanto vi trovo! Urlò distrattamente, proseguendo il suo discorso interrotto. Colpa della crisi se il lavoro diminuì di colpo e la gente cominciò a non pagarlo più. Poi i fornitori bastardi, gente che conosceva da sempre, pretesero i soldi anticipati prima di consegnargli i materiali necessari per lavorare.
I risparmi si volatizzarono in fretta, finché arrivò la mazzata della banca: rientrare del fido, immediatamente, senza condizioni e dilazioni. Era impossibile e loro lo sapevano ma se ne fregavano della vita degli altri e soprattutto della sua.
Con carte bollate e timbri la banca gli prese la casa e la mise all’asta. L’importo base per l’offerta era basso, quasi umiliante, pensava e piangeva il signor Morella, conteggiando a memoria tutti i materiali usati, la fatica e il tempo impiegato per tirarla su dal nulla, da solo, tutte le sere, i sabati e le domeniche, persino la mattina di Natale. Una bella villetta in un bel posto, con circa duemila metri di prato intorno. La star del mese sul sito Aste Giudiziarie.

Tornando a quel lunedì tredici novembre, da quel giorno e per tutta la settimana sarebbe arrivata tanta gente a vedere l’immobile all’asta, per valutarlo e poi presentare l’offerta al tribunale.
Le nove. Eccoli lì, lungo la strada, i visitatori che vociavano. Tutta gente che viene fare shopping a casa mia, pensava il signor Morella, affacciato alla finestra, ricambiando torvo gli sguardi curiosi di quelli là fuori. Troppi occhi, troppe facce: erano almeno una quindicina, divisi in gruppetti, e altri ne sarebbero arrivati ancora. Circa novanta visitatori al giorno divisi in trenta visite da tre persone, per una settimana, manco fosse un museo, quella casa.
Alle nove e un quarto iniziò il rituale: la curatrice andava alla porta, faceva entrare il primo gruppetto, l’accompagnava dentro, dava informazioni e rispondeva alle domande. Il signor Morella poteva restare in casa ma non doveva intervenire né disturbare la procedura. Non ci provò nemmeno, tanto era stanco e demoralizzato; se ne restò in basso, in cucina, seduto al tavolo, il cartone di tavernello aperto. Insieme a lui c’era Rospo, arrivato poco prima, il più recente amico di bevute, uno di quei tipi da bar senz’arte né parte, tutto chiacchiere e bicchierini. Rospo, perché lo chiamassero così si può immaginare, era lì per il vino e la curiosità, mica per fargli compagnia; il signor Morella gli avrebbe tirato volentieri dei calci nei denti se non fosse che gli rimaneva solo lui.
A mezzogiorno la manfrina del mattino non era ancora finita. Continuavano a sfilare, chiacchieravano nel corridoio, scrutavano interessati l’immobile, bussavano sui muri come fossero angurie. Che dementi, pensava il signor Morella, e che bello vederli quando sentivano la puzza e si schifavano: era tutto un oh, bah, mamma mia, addirittura qualche delicatino tossiva fino ai conati.
Entravano in cucina, passavano davanti ai due beoni senza degnarli di un cenno o un saluto. Per loro erano trasparenti, anzi, no, degli animali puzzolenti da evitare. In cucina, nei momenti di silenzio, si avvertiva il ronzio di due mosche che sbattevano freneticamente sul vetro: strano, le mosche avrebbero dovuto viverci proprio bene, lì dentro, e invece volevano uscire a tutti i costi.
Mai avuta così tanta gente per casa, pensava l’ex proprietario. Solo una ragazza, accompagnata forse dai nonni, si era fermata e lo aveva guardato negli occhi, quasi con tenerezza, sussurrandogli “mi scusi”. Sua moglie, invece, era cattiva dentro. Era lì mica per vedere lui e sentire la sua puzza. No, voleva solo fare un piacere alla bambina, gli aveva sibilato sprezzante, perché in casa c’era rimasto il suo pupazzo preferito. Ora si ricordava! Che delusione! E però, pensò il signor Morella, quella donna aveva affrontato una giornata intera di viaggio per un pupazzo spelacchiato, un grosso gatto nero di pezza con una macchia bianca che si allargava su quasi tutto il petto. Nonostante fosse ormai sdrucito e gli mancasse un occhio di plastica, sua figlia non riusciva a dormire senza. Chissà quanto doveva aver sofferto per averlo dimenticato lì in casa, quando era scappata con la madre.
Ieri sera era vero, quindi.
Durante ogni visita la curatrice si fermava al piano terra, ai piedi delle scale, sussurrando agli interessati: Andate pure voi su a vedere le camere, io mi fermo qui, poi capirete il perché. E quelli andavano su, la faccia tesa manco ci fosse stato il conte Dracula ad aspettarli. Invece c’erano solo sporco, sfacelo e un’aria mefitica intollerabile.

Il pomeriggio stava finendo ma quello era solo il primo giorno di una settimana intera: altra gente per casa, altra indifferenza, altro disprezzo. Il signor Morella aveva i nervi a pezzi, senza parole, un’enorme confusione in testa. Cosa diavolo era successo la sera prima, dopo che lui e la moglie erano andati in cantina a cercare qualcosa, cosa stava facendo ora e cosa avrebbe dovuto fare più tardi? Ricordò la storia del pupazzo, il gatto nero mezzo scucito e mezzo cecato. La bambina non dormiva senza eccetera. Per quello sua moglie era tornata, la sera prima, all’improvviso, senza avvisare, forse sperando di non trovarlo in casa. Nessuna luce era accesa, al signor Morella piaceva starsene al buio e così si ritrovarono in soggiorno: lui, lei e nessun altro.
Quanto alla sua casa all’asta, il signor Morella da tempo aveva un piano per l’ultima notte, prima di andarsene, ma ci sarebbe voluto ancora un po’ di tempo. Quella sera invece no, decise che avrebbe agito subito. Non aveva scelta, pensava, specie dopo quello che era successo ieri sera, però cosa? Scese in cantina, un piccolo locale ingombro fino all’inverosimile di masserizie, spazzatura e scarti di materiali edili, dove i visitatori avevano dato una sbirciata, guardandosi bene dall’entrare, per paura dei topi, forse. Spostò un vecchio baule e scoprì un telone di plastica verde, quello con cui fasciava la sega circolare da tavolo che non c’era più, venduta per pochi soldi. Al suo posto c’erano tre taniche da cinque litri di benzina, servivano per il decespugliatore, dato via anche quello. Cercò di ricordare la procedura pianificata da tempo. Doveva ragionare con calma, aveva una tale confusione in testa, a volte gli sembrava di non essere lui, pensava di essere un altro, quelle mani con cui si accendeva le sigarette non gli sembravano le sue. Si sedette su un pallet di sacchi di cemento aperti e mattoni forati e passò in rassegna la sua impresa.
Sembrava tutto molto semplice o così ricordava, almeno.
Uno: camere al primo piano, versare tutta la benzina di una tanica nelle due stanze da letto, per terra e sui mobili.
Due: piano terra, spargere la benzina della seconda tanica in cucina, nel soggiorno e nella dispensa.
Tre: terza tanica da versare sulle masserizie, in cantina.
Quattro: andare al primo piano, accendersi una sigaretta, buttarla in una stanza e scendere giù; fare lo stesso al piano terra e scendere giù in cantina, chiudersi dentro e gettare le chiavi fuori, nel prato, attraverso il finestrino a vasistas, richiudendolo, poi avanti con l’ultima sigaretta.
L’ultima della sua vita, se la sarebbe fumata con calma, fino alla fine, prima di lanciarla sul mucchio intriso di carburante. Sarebbe durato un quarto d’ora in tutto. Dalle villette vicine avrebbero visto uno spettacolo che manco il falò di San Giuseppe. I pompieri non sarebbero arrivati prima di venti minuti, troppo tardi. Era pronto, gli girava la testa e tremava, confuso, stava perdendo la concentrazione, aveva paura. Pensò che avrebbe sofferto almeno una decina di minuti dentro la cantina, prima di morire. Sarebbe morto per il fumo o per le fiamme? Quanto sarebbe stato grande il dolore? A cosa avrebbe pensato nel frattempo?
Pensò alla morte e si coprì la faccia con le mani, mugolando come un cane bastonato. Prese a calci la poltrona, si tirò i lembi della camicia sgualcita e un po’ di bottoni saltarono via. Si fermò, stava urlando Calma! Calma! Ragiona! Pensa!
Bevve quasi un litro di vino in un quarto d’ora e si calmò. Poi chiuse gli occhi e si accorse che non aveva più niente a cui pensare. Cosa pensa un morto condannato a morte? Niente, e invece gli tornò in mente quella brava ragazza, accompagnata dai nonni, che si era fermata, la mattina, e lo aveva guardato e gli aveva sussurrato “mi scusi”. Le ricordava sua figlia che non avrebbe mai più visto, perché aveva davvero deciso, quello era il momento di farlo, si trattava di iniziare, poi il coraggio sarebbe arrivato.
Non poteva aspettare di più, in ogni caso la tragedia era nell’aria.

Scese in cantina e ne risalì con due taniche: una la lasciò in cucina, l’altra di sopra, nella camera matrimoniale. Eseguì le fasi uno e due in preda a frenesia. Mentre riscendeva in cantina, nelle altre stanze l’odore greve di benzina stava soffocando per sempre la puzza di sporco e presto sarebbe arrivato il fuoco purificatore. Si sedette su una pila di pannelli gialli da carpentiere, prese in mano la terza e ultima tanica e, mentre stava svitando il tappo, udì un rumore strano provenire dal muro in fondo al locale. Un vrrr sordo e ripetuto. Forse un topo che rosicchiava qualcosa? Si fece strada tra le cataste di roba, fino alla parete. Non era un topo o un altro animale, era un rumore sempre uguale e perfettamente cadenzato, qualcosa prodotto da una macchina o da un attrezzo. Proveniva da dietro il muro. C’era qualche impianto lì dietro? Strano, la porta di accesso all’intercapedine era stata murata da poco tempo, forse solo da un giorno, era esperto lui, i mattoni erano ancora umidi e fresca era la malta. La stessa malta che gli sporcava a chiazze le scarpe e i pantaloni. Intanto il rumore cessò ma da fuori arrivò l’urlo lancinante di una, due sirene. Non potevano certo essere i pompieri, non aveva ancora acceso il fuoco! Un’ambulanza? Stiamo tutti bene, qui, signori della croce rossa! Il signor Morella si arrampicò al vasistas e sbirciò fuori. Erano due auto della polizia, si erano appena fermate davanti al cancello, i lampeggianti sul tetto proiettavano scie di luce azzurra sui muri e sugli alberi del prato. In quel momento ricominciò il rumore vibrato di prima, dietro il muro. Per una decina di secondi ascoltò rapito quel vrrr vrrr ritmato, quando dal piano di sopra, dall’ingresso, risuonò forte il campanello di casa. Quel driiin inaspettato gli provocò un fremito. Mentre il campanello continuava fastidiosamente a risuonare, accompagnato da forti colpi sulla porta di casa, il signor Morella a sua volta cominciò a tirare calci al muro tirato su di recente, in cantina. Pochi colpi mirati e i mattoni cominciarono a cadere all’interno del piccolo vano d’isolamento, dietro il quale c’era un qualche aggeggio che vibrava senza sosta. Forse aveva capito: era la vibrazione di un telefono cellulare. Non certo il suo, non l’aveva più da mesi. Sua moglie invece l’aveva, ieri sera, aveva appena mandato dei messaggi, prima di.

La luce dei neon della cantina si fece strada all’interno dell’intercapedine. Il signor Morella sporse la testa e si trovò a mezzo metro da un fagotto addossato al muro, un corpo inanimato di donna col capo chino che cingeva in grembo un grosso gatto nero di pezza, sporco di sangue. A terra c’era il telefono che continuava a vibrare, spostandosi lentamente qua e là, mentre lo schermo si illuminava a intermittenza. Il signor Morella rimase senza fiato, gli sembrò di svenire, era davanti all’incubo che l’aveva tormentato tutta la notte. Cominciò a barcollare per la disperazione, mentre risuonarono forti schianti da sopra: era una porta che stava cedendo sotto i colpi di qualcosa di pesante. Cadde a terra, poi annaspò per alzarsi, finalmente si mise in ginocchio, rovistandosi nelle brache per cercare l’accendino. Continuava a tastarsi le tasche, velocemente, confusamente, ossessivo. Niente, non lo trovava, forse gli era caduto mentre faceva crollare il muro dell’intercapedine o forse l’aveva dimenticato di sopra, sulle scale o sul tavolo della cucina. Nel mentre avvertì il botto della porta che cedeva, le urla concitate e il rumore di passi all’interno.
Il signor Morella si sedette su un secchio rovesciato, pronto alla resa ma ancora tastando frenetico ogni sua tasca. La scaletta della cantina cominciò a rimbombare di passi, i poliziotti stavano scendendo giù velocemente.
Poi con la coda dell’occhio sinistro scorse la scritta Forza Toro.
L’accendino era sul pavimento, a solo un metro da lui, vicino alla tanica aperta e ancora piena di benzina.