I nostri Antonio Russo De Vivo e Alfredo Zucchi intervistano, a tutto campo, Rossella Milone. La scrittrice napoletana ha pubblicato le raccolte di racconti Il silenzio del lottatore (Minimum Fax, 2015), La memoria dei vivi (Einaudi, 2008) e  Prendetevi cura delle bambine (Avagliano, 2007) e il romanzo Poche parole, moltissime cose (Einaudi, 2013). Nel 2015 ha creato l’osservatorio sul racconto Cattedrale.

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Antonio Russo De Vivo Perché il racconto, in Italia, va salvaguardato? E se semplicemente, oggi, qui, questa forma, non sorretta da una tradizione recente solida, non funzionasse? Chiedo perché non ancora mi sono imbattuto – ma magari ciò avverrà – in una raccolta di racconti o in un racconto impressionanti, salvo forse L’ubicazione del bene (Einaudi, 2009) di Giorgio Falco.

Rossella Milone Va assolutamente salvaguardato. Perché noi una tradizione forte di racconti ce l’abbiamo, nel lontano passato come nel recente. E non solo per questo:  anche perché il racconto è una forma letteraria preziosa che può dare tantissimo al lettore e alla letteratura. In libreria si espongono i romanzi di Pavese, ma non i suoi racconti. Vorrei che i racconti di Buzzati li leggessero tutti e non solo una nicchia, pochissimi conoscono quelli di Manganelli, ancor meno quelli della Ramondino o della Ortese, ad esempio. Questo patrimonio non lo vogliamo sostenere? A me pare che dobbiamo. I racconti sono racconti ovunque e sempre, non è che a volte funzionano e altre no.
E non sono affatto d’accordo su ciò che dici a proposito della recente tradizione letteraria di libri di racconti; abbiamo degli scrittori ottimi di libri di racconti, da Ricci alla Marchetta a Cognetti. Ci sono, esistono e vanno letti.

ARDV CrapulaClub, per gioco ma nemmeno troppo per gioco o, meglio, nel senso più serio e coercitivo del termine (il senso inteso da Deleuze ne Il freddo e il crudele, SE, 1991), propone un canone della letteratura italiana del nuovo millennio, in divenire, e cioè una lista di opere che potrebbero essere i nostri nuovi classici. Quali libri datati dal 2000 in poi, secondo te, potrebbero esserlo? Puoi sbilanciarti, è solo un gioco.

RM È troppo difficile perché un classico si costruisce anche nel tempo; nel modo, cioè, in cui un libro si sedimenta nella tradizione letteraria di una società. Comunque, per giocare, ora come ora ti direi: Un bene al mondo di Andrea Bajani (Einaudi, 2016); Tre anni luce di Andra Canobbio (Feltrinelli, 2013) e forse La prima verità di Simona Vinci (Einaudi 2016).

ARDV  Il silenzio del lottatore (minimum fax, 2015), il tuo ultimo libro, è una raccolta di racconti – scritti in stile impeccabile, elegante e pulito, senza cadute –, che mi pare accomunata dalla volontà di fare educazione sentimentale/sessuale al femminile, un po’ Munro un po’ Brodkey. Quali elementi, quali idee, travalicano e fanno decadere questo limite di visione? Oppure è universale il bisogno di esplorare i turbamenti, gli splendori e le miserie delle donne? Insomma, non essendo io donna, perché La Donna?

RM Io non avevo alcuna volontà del fare educazione sentimentale, tanto meno al femminile. Non è così che si scrive un libro: uno scrittore ha delle storie da raccontare e le racconta, e non deve pensare al libro come una sorta di manuale morale. Inoltre questa questione del femminile e del maschile in letteratura non la condivido proprio; nel senso che è una faccenda inutile, a cui gli scrittori quando scrivono non pensano perché loro pensano a raccontare delle persone e basta. Quindi, sì. Assolutamente sì. È universale parlare delle donne. Come è universale parlare degli uomini. La letteratura questo fa: raccontare l’essere umano. Anzi, forse in questo momento è ancora più necessario raccontare le donne. Ma a parte questo, un lettore non si appassiona al libro perchè racconta di un uomo o di una donna, ma perché si appassiona alle vicende dei personaggi: mi vuoi dire che tu leggi solo libri in cui si parla di uomini? Uno si appassiona a un libro per come è scritto, e per come racconta certe dinamiche umane – non maschili e femminili, ma umane. Tra l’altro, proprio riguardo a quest’ultimo libro, un sacco di lettori maschi mi hanno scritto per dirmi quanto li avessero colpiti certi racconti, chi per un motivo chi per un altro. Insomma, io sono donna ed è naturale che il mio sguardo si poggi su una condizione che sento più vicina alla mia, anche se non è questo che deve interessare al lettore. Ma poi, scusa, in giro ci sono un sacco di scrittori uomini che scrivono libri. E, ovviamente, scrivono molto di più di uomini. L’avresti fatta, a uno scrittore uomo, la domanda: perché scrivi di uomini?

ARDV Tu curi anche laboratori e corsi di scrittura. A cosa può servire, oggi, un corso di scrittura? Non parto da una prospettiva critica, perché secondo me può essere prezioso per chiunque debba lavorare con le parole, non solo a chi ambisce a fare narrativa.

RM Penso che un corso di scrittura serva e non serva. Nel senso che non si insegna a scrivere, non puoi insegnare un’attitudine, uno sguardo, la sensibilità che serve per entrare dentro a una storia, la capacità di empatizzare coi personaggi. Questo lo si possiede o meno, lo puoi allenare, ma non lo impari. Penso, però, che si possa trasmettere un’esperienza, che è quella della scrittura, appunto. Aldilà delle questioni tecniche e teoriche – che in narratologia esistono, e che un narratore deve conoscere – un corso è un luogo in cui si ascolta parecchio, in cui ci si scambiano pareri e ci si confronta; soprattutto, si impara a gestire uno strumento, che è quello della narrazione, e questo può essere molto utile. Poi sta all’intelligenza di ciascuno mettersi addosso ciò che il corso gli ha regalato, per trovare la propria voce autoriale. In molti casi, comunque, un corso serve soprattutto a fare pratica di umiltà, che aiuta sempre parecchio.

Alfredo Zucchi Io invece voglio chiederti una cosa che mi sta molto a cuore: rifletto da tempo, dal punto di vista di chi scrive, sulla relazione tra racconto e romanzo, tra forma breve e forma estesa. Tu sei autrice di racconti come di romanzi, dimmi: cosa cambia? In cosa diverge il tuo approccio alla scrittura a seconda che si tratti di  un racconto o di un romanzo?

RM Cambia il respiro. Il modo, cioè, in cui quella determinata storia si espande nel corso della narrazione. Un romanzo deve costruire un mondo mentre il racconto ferma la sua attenzione in un segmento di quel mondo: una fugacità in una permanenza, direbbe Cortázar. È la storia che decide in che forma deve essere scritta; non tutte le storie possono stare in un racconto, e viceversa. Direi che la mia scrittura non diverge rispetto al romanzo o al racconto, perché è quella; piuttosto cerca la forma migliore per raccontare quel tipo di storia; cerca un ritmo, un respiro, un fiato che resista nella breve o nella lunga durata. Come quando uno deve correre i cento metri o una maratona: cambia tutto. Cambia il modo in cui gestisci il fiato e i passi, quello in cui organizzi il tragitto, le impalcature che dai al tuo percorso.

AZ Qualche domanda sull’esercizio della scrittura:
Quali sono i tuoi rituali – se ce ne sono – quando scrivi?
C’è una disciplina che ti sforzi di mantenere, un momento preciso della giornata che dedichi alla scrittura?
Come organizzi il lavoro (raccolta materiali, stesura, rilettura/correzioni)?

RM No, rituali non ne ho, se non nominare il file su cui sto scrivendo col nome del personaggio principale. Ormai faccio così con tutti i libri che scrivo – e anche con i racconti singoli – anche se il titolo del testo sarà ovviamente un altro. La disciplina, quella sì, è indispensabile. Almeno per me. Cerco di scrivere tutti i giorni e preferibilmente la mattina. A volte la scrittura non ne vuole proprio sapere di venire fuori, e allora leggo o mi metto a fare la lavatrice. Però, impormi un orario di lavoro che sia di scrittura e basta sì, lo faccio e cerco di farlo quotidianamente. Ora che mia figlia va al nido è un pochino più facile, ma anche prima, non so come, in qualche modo ci riuscivo. In genere il momento della stesura e della ricerca coincidono; nel senso che raccolgo materiale, se serve, mentre sto scrivendo, perché quello che scriverò non lo so mai prima, e quindi scrivere e approfondire sono due passaggi, almeno nella prima stesura, che vanno di pari passo. E questo è un bel momento, perché è quello in cui il libro ti dà davvero l’impressione di uscire dal tuo mondo e penetrare lentamente in quello che stai creando. Mi succede che i libri li maturi – non li pensi, che è diverso – in testa per moltissimo tempo, anche anni. Invece, poi, la prima stesura è velocissima, il libro lo butto fuori in pochi mesi in una sorta di trance senza censure. Invece, la fase della riscrittura dura molto di più, perché in quel momento lì il libro ha bisogno di essere disciplinato e curato con lucidità.

AZ E infine: puoi descriverci, dall’interno, la relazione con gli editor che hanno accompagnato i tuoi libri?

RM Alla fine sono diventati degli amici. Perché toccano qualcosa di molto intimo, e lo fanno con il tatto e la grazia che molti amici hanno. Almeno, parlo di quelli con cui ho lavorato io, cioè Peano di Einaudi e Lagioia di Minimum Fax. Sono creature preziose, gli editor: hanno a cuore una cosa che sta a cuore a te, forse più di te, e la lucidità del loro sguardo è assolutamente indispensabile per l’efficacia del libro. Con i miei editor ho avuto due approcci di lavoro molto diversi; uno più partecipativo e costante e simbiotico; l’altro più libero, più genitoriale, diciamo. Un genitore ti dà gli strumenti, poi te la devi vedere tu. Ecco, in questo spazio di libertà si cresce molto perché devi attingere a tutta la competenza e alla bravura che possiedi. Entrambi sono stati delle sponde fondamentali, soprattutto perché quando si parla lo stesso linguaggio è una specie di magia che si compie sotto gli occhi, in mezzo alle parole.