Storia visibile e storia segreta

In Tesi sul racconto, lo scrittore argentino Ricardo Piglia utilizza  un appunto di Checov

Un uomo, a Montecarlo, va al Casinò, vince un milione, torna a casa, si suicida.

per portare alla luce un dualismo fondamentale alla base del racconto moderno. Dice Piglia:

L’aneddoto [di Checov] tende a svincolare la storia del gioco da quella del suicidio. […] Prima tesi: un racconto narra sempre due storie […] Una narrazione visibile nasconde una storia segreta […]

I modi della relazione tra storia visibile e storia segreta, secondo Piglia, segnano l’evoluzione e la storia del racconto moderno: dall’irruzione improvvisa della storia segreta (il finale a sorpresa come in Poe), all’abbandono della struttura chiusa e la sottrazione della storia segreta (il caso di Hemingway: ciò che più conta non va mai detto) per venire infine a Borges e Kafka. Del boemo scrive: “Kafka racconta con chiarezza e semplicità la storia segreta, e narra invece la storia visibile con discrezione e cautela, fino a convertirla in una cosa enigmatica e oscura. Questa stessa inversione fonda ciò che si definisce kafkiano”.

L’accento sull’anello mancante nell’appunto di Checov (il perché del suicidio) indica una tensione a spiegare, a rimettere le cose a posto, a risolvere e chiudere la tensione tra le due storie, fosse anche attraverso un’illuminazione. La chiusa di Tesi sul racconto recita infatti:

Il racconto si costruisce per far apparire artificialmente qualcosa che fino ad allora era nascosta. Riproduce la ricerca sempre nuova di un’esperienza unica che ci permetta di vedere, attraverso la superficie opaca delle cose, una verità segreta […] Questa illuminazione profana è diventata la forma stessa del racconto.

E se invece non fosse possibile rimettere le cose a posto? Se, cioè, la “verità segreta” si mostrasse restia a lasciarsi sciogliere? E cos’è, in fondo, una verità segreta?

La nebulosa

Un altro modello oppositivo ci viene incontro, per allargare o sfondare la questione: il dualismo che si riferisce alla tensione tra fisica newtoniana o classica e fisica quantistica, tra macroscopico e microscopico, tra verità  e probabilità.

In una prospettiva quantistica, gli eventi accadono sfidando i principi di continuità della materia, della causalità spazio-temporale, della possibilità della definizione e della certezza della misurazione. I magli della realtà si allargano: non è detto che ciò che risulta inspiegabile o assurdo all’occhio umano sia inspiegabile tout court.  Di più, l’idea stessa della soluzione si configura come una riduzione capziosa delle variabili in gioco – un artificio per occhi e cervelli umani. Scrive il fisico tedesco Martin Bojowald citando Nietzsche: “I risultati dei processi di misurazione non ci forniscono un preciso insieme di proprietà – neppure per un singolo oggetto – quanto piuttosto una sintesi di caratteristiche che dipende dal punto di vista.”
L’insieme di queste caratteristiche non si lasciano sciogliere singolarmente, ma convivono simultaneamente. Questo convivere e oscillare insieme, che Nietzsche chiama sintesi di significati, si definisce principio d’indeterminazione, e trova una sua formulazione nella funzione d’onda di Schrödinger. Qui, con certa licenza, lo chiamiamo nebulosa.
In questo quadro, la figura della soluzione diviene un orpello inutile, una forzatura, un errore metodologico. Da un punto di vista classico bisogna risolvere “una verità segreta” con un ragionamento o un’illuminazione, per rimettere le cose a posto;  in una prospettiva quantistica, al contrario, il mistero (questa oscillazione e connivenza simultanea di probabilia)  è la natura stessa delle cose.

Analizziamo ora le opere di Franz Kafka e David Lynch per misurare come questa nebulosa possa mai avere luogo fuori da un esperimento subatomico, in un testo letterario. Ci troviamo dunque in un laboratorio narratologico.

La fuga lynchiana

Si può dire che il succo del metodo lynchiano venga fuori quando, nella seconda puntata della prima stagione di Twin Peaks, l’agente speciale dell’FBI Dale Cooper spiega alla polizia della contea di Twin Peaks il suo metodo onirico.

Eppure ciò che accade da Strade perdute in poi è di natura ancora diversa e più affine al nostro discorso. In Twin Peaks la tensione si concentra nell’orizzonte fantastico: lo squarcio della realtà (nel senso della fisica classica, una figura abusata che si avvicina, in narratologia, a quella della verosimiglianza e che qui usiamo unicamente come riferimento convenzionale) trova alla fine una compiuta, minuziosa rappresentazione nella loggia nera in cui Dale Cooper mette piede nell’ultima puntata della seconda stagione. In Strade perdute, e poi in Mulholland Drive e Inland Empire, invece, la tensione tra verosimile e fantastico dà luogo a un’altra cosa, che qui chiamiamo la fuga lynchiana: in questa figura, un tema narrativo, sviluppandosi, dà vita a un altro tema. In questo passaggio avvengono delle trasformazioni, delle inversioni o transfert di ruoli all’interno della stessa struttura: così, il personaggio A nel tema 1 diventa il personaggio B, C o D nel tema 2, e viceversa. Non c’è, in questo passaggio, relazione biunivoca del tipo: A nel tema 1 corrisponde a B nel tema 2, come B nel tema 1 corrisponde a A nel tema 2; i due temi sono diversi e nella differenza conservano una familiarità, appartengono alla stessa traccia; questa traccia è la struttura generale dell’opera.
Inoltre, è scorretto assegnare a uno dei temi lo statuto di verosimile e all’altro quello di fantastico. Si può dire che entrambi gli statuti operino in entrambi i temi – o ancora meglio che questa distinzione divenga insignificante in questo contesto.

Per analizzare questo processo, Marcos Ordoñez, in due articoli su El País (qui e qui, in spagnolo), utilizza la figura della fuga, riferendosi sia alla tecnica contrappuntistica resa celebre da Bach, sia alla figura psichiatrica della fuga dissociativa o psicogena, per cui un individuo, per causa traumatica, a un certo punto, crede di essere un altro – e, credendoci, di fatto diventa un altro. Se in Strade perdute il supporto della figura psichiatrica è evidente, in Mulholland Drive il processo si fa più sottile, più maturo e in qualche modo naturale.

Prendiamo allora Mulholland Drive. Come accade questa trasformazione?
Betty, a Hollywood per un provino, decide di aiutare Rita a ritrovare il suo passato e la sua identità – dopo un incidente d’auto in Mulholland Drive non ricorda nulla. Rita si convince a svuotare il contenuto della sua borsa: dentro, oltre a svariati mazzetti di dollari, una chiave blu. Le due donne nascondono la borsa in casa e decidono di indagare le circostanze dell’incidente che ha coinvolto Rita. L’idea, per Betty, di essere sulle tracce del mistero, come nei film, genera elettricità crescente, che diviene attrazione e poi unione sessuale. Dopo l’amplesso, dopo essersi dichiarate l’amore, Rita comincia a ricordare e insiste di dover andare in un posto, un teatro, il Club Silencio.
Nel Club Silencio, dice l’uomo sul palco: “È tutto registrato. Non c’è orchestra eppure sentiamo. È tutto un’illusione.” La llorona de Los Angeles sale sul palco e canta Llorando. Poco prima della fine della canzone, cade morta al suolo mentre la sua voce continua a essere diffusa in teatro. Alla fine dello spettacolo, Betty trova nella sua borsa una scatola blu. Le due tornano di corsa a casa e aprono la scatola con la chiave rinvenuta nella borsa di Rita.

Lo sguardo è letteralmente inghiottito nell’involucro vuoto della scatola. Qui accade l’inversione: nel tema 2, Betty – il suo corpo, la sua faccia – diventa Diane, una donna ritrovata morta nel tema 1; Rita invece è Camilla, come Camilla Rhodes, l’attrice scritturata per un film in produzione nel tema 1.  Nel tema 2 Diane è innamorata, e rifiutata, da Camilla.
Quando lo spettatore, alla fine del film, si chiede cosa sia accaduto di preciso, come abbia potuto prodursi questa inversione, questo rimescolamento intersoggettivo – a quel punto arriva la colonna sonora di chiusa, un tema d’amore perduto, e tutto è chiaro. Cioè niente è letteralmente chiaro, ma non è questo il punto.

C’è dunque un luogo o momento di passaggio tra un tema e l’altro, uno svincolo che ribalta o rivolta gli elementi della storia (allo stesso modo, nella cosmologia quantistica, si definisce il Big Bang come un rivoltarsi come un calzino dell’universo piuttosto che come l’origine dell’universo stesso; così, la figura dell’origine viene messa da parte allo stesso modo di quella della soluzione).  In un articolo precedente  ho definito questo svincolo vettore d’occulto – tuttavia se il segreto e il mistero perdono significato in questo contesto, bisognerebbe chiamarlo piuttosto buco nero.

La distrazione kafkiana

All’inizio del Castello di Franz Kafka, all’agrimensore K. vengono presentati i suoi aiutanti. Per prima cosa K.  non li riconosce, non sa chi siano; poche pagine dopo, afferma di averli incaricati di partire dopo di lui, per portare le sue cose al villaggio. Più avanti, si dice che i due erano compagni d’infanzia di Frieda, la donna che K. incontra la prima notte al villaggio, nell’Albergo dei Signori.
In filologia classica, per descrivere gli elementi incongrui, gli andirivieni e le contraddizioni dei testi omerici, si usa la figura delle distrazioni omeriche. Ora, da Gianbattista Vico in poi, sappiamo che Omero non esiste, non è un uomo o non uno solo. Non è difficile, nel quadro di un testo orale di natura collettiva, la cui fissazione scritta è soggetta a forti conflitti geopolitici di natura egemonica, giustificare questi andirivieni.
Cosa accade invece con le distrazioni kafkiane? La natura incompiuta del Castello, e il fatto che Kafka non sia mai tornato sulla sua prima stesura sarebbero attenuanti abbastanza forti per giustificare o inquadrare questi elementi incongrui, per abbandonare l’ipotesi della nebulosa. Così fa, ad esempio, Max Brod quando dice che il finale del Castello esiste ma Kafka non ha fatto in tempo a scriverlo: sul letto di morte, K. avrebbe ricevuto, alla fine,l’approvazione dei signori del Castello.

Invece di abbandonare quest’ipotesi, facciamo un altro salto. Ho già scritto come la nebulosa ami prendere corpo nelle forme brevi piuttosto che nelle forme estese – prendiamo allora il racconto Un medico di campagna.

Nel cuore della notte, un medico è chiamato a recarsi da un malato in un villaggio vicino. Nevica, i suoi cavalli sono morti. Quando è sul punto di usare dei maiali per tirare il carro, viene uno stalliere e gli offre due cavalli. Il medico parte: la durata del viaggio è sorprendentemente breve. Accolto nella sala del malato – i genitori si aspettano che lo guarisca o che certifichi l’ineluttabile – il medico non vede alcun segno patologico sul suo corpo. Fa per andarsene:  a quel punto i genitori, delusi, lo spingono a dare un’altra occhiata al malato. Ora il medico scorge una ferita all’altezza dell’anca, grande come un palmo e pullulante di vermi. Il medico viene preso di forza, spogliato e messo di fianco al malato, nel suo letto. Fuori, un coro di scolaretti prende a cantare: “Svestitelo e lui saprà guarire, e se non sa guarire, uccidetelo! È solo un medico, solo un medico!” (F. Kafka, La metamorfosi e altri racconti, Garzanti, 2013, p. 105) Dopo aver rassicurato il malato dell’ineluttabile, il medico raccoglie le sue cose e dalla finestra salta sulla carrozza per tornare a casa. La pelliccia ricade troppo lontano, resta appesa a un gancio della carrozza – il medico, nudo nella notte nevosa, si dice che se il viaggio sarà breve come all’andata, non ci sarà tanto da soffrire. Invece i cavalli sono lentissimi, di questo passo non arriverà più a casa.

C’è un passo, nel testo, che ci indica come possa mai accadere tutto questo: un passaggio temporale dal passato al presente, quando lo stalliere, dopo aver offerto al medico i cavalli, si lancia su Rosa, la sua domestica, per ghermirla. Il medico fa per punirlo col frustino, ma solo allora gli viene in mente che “è un estraneo, uno che non si sa di dove venga” (p. 100).
Kafka ci fornisce inoltre due altri elementi sul finale: i cavalli, quegli stessi che, da soli, sono riusciti ad aprire dall’esterno la finestra della stanza del malato per contemplare la scena, che hanno percorso il tragitto d’andata a una velocità sorprendente sono “non terreni”; e inoltre: “Inganno! Inganno! Se una volta dai retta al menzognero squillo del campanello notturno, non c’è più rimedio possibile”.
La distrazione è più che una distrazione: è il luogo, la figura in cui oscillano e convivono i probabilia.

In Lynch, nella figura della fuga, persiste l’elemento dualistico che Piglia traduce nella tensione tra storia visibile e storia segreta – abbiamo visto, però, come la corrispondenza sia debole: è scorretto leggere i due temi lynchiani nei termini dell’opposizione visibile/segreto; l’idea stessa del segreto diviene secondaria in favore di quella del passaggio, dello svincolo.
In Kafka, invece, in particolare nella raccolta Un medico di campagna – come scrive  Luca Mignola, e a discapito delle tesi di Piglia – ogni riferimento a questo dualismo scompare. Il testo è un unico oscillare insieme, simultaneo, di elementi inseparabili. La figura del segreto e del mistero perde il suo riferimento oppositivo – è la natura stessa delle cose. Di più, venuta meno la tensione dualistica, si apre la questione della chiusa, della sua possibilità: un testo finisce (quando pure finisce, come il caso del Castello ci indica) e niente è risolto; la chiusa si limita a certificare la fine dell’esperimento capzioso di misurazione – intanto  la ruota continua a girare, seppure è preciso dire che ci sia, da qualche parte, una ruota che gira.

***

Pubblicato sul blog “La chianca” della Libreria Francavillese