Quella notte, nel sogno, ho sentito le mie mille stupide illusioni. C’era un respiro, poi una voce che si lamentava. Mi addormentavo e mi svegliavo. Sono rimasto ore in ascolto della voce di Dio. Avevo lasciato la porta aperta, ho aspettato invano almeno uno degli angeli del Signore. Ma non ho sentito niente. Quando si è fatto il momento sono sceso dal letto. Non era ancora l’alba. Ritrovavo a memoria le parole dei salmi: Signore fammi giustizia, nell’integrità ho camminato, confido in te. Migliaia di volte ho ripetuto queste preghiere. Tutte le volte che mi aspettavo cose orribili.
Giobbe ma cosa hai fatto, ho pensato. Hai perso le parole e il senso. Signore, Signore controlla la mia mente, plasmala con il tuo amore.
Sono andato alla porta d’ingresso e ho trovato un corvo che beccava il legno. È segno di cattiva promessa. Subito il freddo è arrivato a premere contro i polmoni caldi. Poi sono arrivati gli altri uccelli, i passeri, gli aironi e i falchi pescatori. Questa terra di Uz ha le colline con i dorsi sensuali. La amo con ogni fibra del mio corpo. I campi, anche quando sono nudi, odorano di fiori. Ma quel giorno tutto è andato alla rovescia. Ho raggiunto il pozzo nel cortile e mi sono buttato a terra. Ho allungato le mani verso i vestiti che mi ero strappato di dosso il giorno prima. Il vento suonava una musica accordata con il cielo, sfumava e poi striava le nuvole. Mi ha raggiunto mia moglie e in silenzio si è seduta accanto. Nel suo volto stanchezza e incomprensione. L’ho stretta a me. Le ho sfiorato le guance con le labbra. Lei non mi ha neanche guardato, i suoi occhi erano umidi e infossati di rabbia e rimaneva chiusa, a braccia conserte.
Sono arrivati gli unici due servi che mi erano rimasti fedeli, Iazer e Modin, incapaci nello sguardo di contenere tanto orrore. Non ho più bisogno di voi, ho detto. Li ho lasciati liberi di trovare la loro strada. Ma sono rimasti immobili, in piedi. Ero circondato dalla morte che si era duplicata, triplicata, quadruplicata mentre io continuavo a sopravvivere. Vedevo le carcasse delle asine, dei cammelli, dei miei amati buoi. Come mi beavo, un tempo, dei loro occhi rotondi, dei loro dorsi enormi e delle natiche grasse. Mi sono tirato a stento in piedi. Volevo vedere da vicino i cadaveri, e mi è sembrato che la testa di uno di quegli animali si volgesse a me, e mi guardasse con gli enormi occhi rigonfi, allucinati, stravolti dalla malattia che lo aveva abbattuto senza alcun motivo. Senza colpa. Ero nudo. La voce di mio padre mi rimbombava in testa: Giobbe, Tu sei un uomo onesto e integro. Dio ti amerà per sempre, non ti farà mancare nulla. Invece, attorno a me, l’aria piena di sabbia mi si impastava tra i denti. Le bestie stramazzate, gli avvoltoi famelici: era finito il tempo della benevolenza e non ne capivo la ragione.
Mia moglie non era più accanto a me, forse era entrata in casa o, dove altro fosse andata, ora non lo ricordo. Avanzavo a passi lenti verso i campi dove un tempo la saggina cresceva selvatica. Mi sono stancato subito e ho trovato ristoro sotto un ulivo. Giacevo. Il mio corpo si allontanava da me. Si dilatava verso la terra e verso il cielo ormai senza nuvole. Non ho sentito più la faccia. Le dita si infilavano nell’erba secca. Ero sospeso nell’aria eppure la schiena premeva contro la terra. Ho sentito il calore del primo sole sulla pelle. Mi stupivo delle immagini che attraversavano la mente. Non avvertivo il freddo. Grida acutissime avevano arrestato i miei pensieri. Erano di Elifaz, di Bildad e di Zofar, i miei amici erano giunti a consolarmi della sciagura, della furia di Dio che, anche se ero sempre stato prudente, era in collera con me. Si è avvicinato Elifaz senza neanche un bisbiglio. Il vento gli gonfiava il mantello, l’odore del sudore rancido si spargeva intorno. Stavano, ora, tutti fermi davanti a me, accucciati come animali, con lo sguardo a terra e trattenendo il fiato. I battiti accelerati del loro cuore mi arrivavano alle orecchie: ho sentito la paura.
Dovevano aver fame per il lungo cammino. Lucertole strappate alle pietre dei muretti a secco e uccellini furono il loro pranzo. Non potevo offrire neanche un uovo di gallina.
Prega Giobbe, prega ancora e di nuovo, mi hanno detto poi, andandosene. Noi non possiamo consolarti per questo abisso di distruzione. E allora io ho pregato per il corvo che gracchiava, per il topo che rosicchiava il mio grano, per i vagabondi che prendevo a bastonate quando rubavano le mie scorte. Tutte le insensatezze, le risposte impudenti, le pietre che ho lanciato, la fede, le lingue dei vivi e dei morti quella notte sono tornate a trovarmi e producevano suoni che erano un unico immenso alleluia. Ti renderò grazie, mio Signore, con tutto il mio cuore, fino a farlo scoppiare.