Subito dopo aver letto il messaggio con cui proponevo la mia candidatura, rivoluzionando dalle fondamenta l’intera missione, Niles mi aveva telefonato e senza convenevoli mi aveva scaraventato addosso tutto il suo disappunto. Niles all’occorrenza si rivelava una pistola sempre pronta a sparare.
«Cox, avevamo il sacrosanto diritto di sapere dall’inizio che sei un pazzo figlio di puttana suicida» mi aveva detto a bruciapelo. Aveva aggiunto tra un sacramento e l’altro (Niles era capace di passare, senza battere ciglio, dalla pistola all’amministrazione di diversi tipi di culto) che se solo lo avessero sospettato, non mi avrebbero mai messo a capo della squadra.
Io mi ero limitato a dargli appuntamento da Stanley, un posto a West Hollywood dove qualche volta andavamo a festeggiare o a piangere, per discuterne con calma davanti a una Bud. Quando ci incontrammo mezzora dopo, Niles era ormai tornato in sé. Saltò la birra e mi fece due domande. Stop. Cercai un motivo credibile che giustificasse il mio cambiamento di rotta improvviso e che lo convincesse che il governo non si sarebbe pentito di aspettare altri cinque anni prima di partire e mettere sul tavolo un’altra barca di dollari.
Il resto è storia. Storia dell’esplorazione spaziale. Storia di un carpiato nel vuoto. La mia. Cox, il primo a sfidare davvero il tempo e lo spazio, praticamente gettandosi di sotto dal miliardesimo piano di quel bel grattacielo che chiamiamo terra. L’Operazione Lightning Zed, quella che avevo concepito e guidato per dieci anni e che sulla carta doveva essere solo l’inizio della trionfale e inutile conquista di Giove (avevamo anche previsto su come alla fine saremmo riusciti a piantare, con tanto di foto, la bandiera a stelle e strisce su un gigante gassoso), era diventata il Progetto David Bowman, in soldoni una sonda e dentro un uomo con il biglietto di sola andata. Non il solito computer che spedisce dati, immagini, pone basi e poi manda la navetta a immolarsi nel fuoco o tra le rocce di un luogo sconosciuto e solitario, ma un uomo, nudo e senza vane speranze, che non deve tornare a casa alla fine del giro e quindi proiettato come nessun altro nel futuro, votato alla morte fisica in maniera pienamente consapevole – tutti dovrebbero esserlo, ma questa è un’altra storia – e convinto di poterlo fare, morire intendo, bruciando come una cometa. Un uomo che guarda, fa domande, dubita, e riferisce, ma con filosofia. Ecco, è quella la differenza: la filosofia. Non c’è paragone tra quello che può fare una macchina, da sola, nello spazio, e ciò che può fare un’anima.
Così li ho persuasi: Niles, la squadra, la NASA, il governo, i miei ragazzi.
Quando Giove ha iniziato a rimpicciolirsi dietro di me fin quasi a sparire, ho deciso di tirare fuori la vera ragione che mi ha portato quassù, o quaggiù, se preferite; che mi ha spinto a lasciare tutto: i figli, il mare, il vento, il sole. Ci ho messo sette anni, giorno più giorno meno. E anche se volessi non potrei tornare sui miei passi, il timone è bloccato su una rotta che punta lontano, ai confini del mondo e della vita. Mi sono seduto allora al mio posto e ho stabilito il collegamento con la base, ma selezionando il canale a cui accede solo Niles. In questi anni ho trasmesso di tutto: calcoli, numeri, idee e ideali, paure, conclusioni, e lui ha l’ultima parola su quello che va detto o meno. Non so se quello che gli ho rivelato lo terrà per sé o ne farà un rapporto dettagliato in cui si spiega che Cox è ancora più matto di quello che sembrava e che la missione è in pericolo visto chi è stato messo in sella al cavallo migliore che avevano. Le stelle sono molto più vicine qui e non sapete cosa possono farci pensare e dire le stelle. E avevo bisogno di essere al sicuro in questa immensa cattedrale di solitudine, silenzio e bellezza per raccontare finalmente la verità su quella notte di tantissimi anni fa, quella che ci ha fatto arrivare fino a qui. La notte in cui ho preso appuntamento con qualcuno. Qualcuno che da allora mi sta aspettando, là fuori, in un punto preciso ma ancora molto lontano da qui, nel buio.

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Da leggere ascoltando Distant sky di Nick Cave & The Bad Sees.

In copertina: foto dell’astronauta Alexander Gerst.