non c'è scampo

Nella ferita precipitano i corpi, ottemperando alla caduta. Lo spazio è più relativo del tempo incostante. Eppure si cade. E si vede, si annusa, si tocca. I sensi non mentono, non mentiranno. Il campo elettrico, il campo magnetico, la distorsione, il precipizio. Esiste questo infinito, pur sempre delimitato, e intorno le città sbudellate, incendiate da fauci meccaniche che sputano acciaio, da aerei bombardieri, funghi atomici, allucinazioni, iperventilazioni, morti. Tutto ciò che brucia è lo zolfo nelle narici: più si fa intenso il suo odore, l’acredine che preannuncia l’omelia, più ci si avvicina al fondo. E le città sono angoli di un cilindro – si precipita. Paris, Paris, tu nous fais pleurer – canta in coro il coro dei Titani, mentre cade. E Mosca – oh la Santa troia! Perché i discendenti degli Achei non ti hanno bruciata, ma suicida sei finita? Non più Roma, ma Berlino, non più New York, non Babilonia. Tutto si confonde, tutto precipita, come la pioggia su Gerusalemme. Santo santo santo è lo spleen – la voce titanica echeggia, si riverbera. I dannati – altrove, i felici – si risvegliano. Oh Atene, se fossi davvero esistita! Atene, madre incestuosa, immersa nel silenzio delle cariatidi! A Nord sempre più a Nord qualcuno ti ha cercato, ti ha scavato e le ossa è tutto ciò che resta. E i Propilei a Londra non li hanno portati e le banchine di Napoli fumavano e l’incendio si vedeva dal mare, città di ladri e festini e ciechi – per non morirne.
E le città – dentro sé stesse – sono vuote, uomini e donne sono oramai tutti borderliners, quando prima il suicidio, cazzo, era così improduttivo. E ancora: milioni di bulbi oculari piantati nella ferita, milioni di vedute, di punti di vista. Ah – le labbra di Omero, mentre cade, si muovono in bestemmia – anche qui l’inganno è sorvegliato dall’opinione.

Intanto, uno a uno crollano loro, i Titani, in un buco che si allarga a spirale dentro il cilindro (la forma per il significato), un buco popolato di croste di fumi. Si respira oppio, si esulta all’inconsistente e si cade. Intorno si squarciano altri buchi spiraliformi e contigui, stracolmi di altri corpi ammassati, tutti ricuciti, grondanti. Ci sono donne ancora aperte, sgocciolanti uomini in mucosa. Liquidi e urla, escrescenze – anche la nascita è morte prematura, e funesto il tempo e il suo calcolo. Le parole di questi mugghiano e sputano. I corpi ammassati esultano e gridano alla vista dei campioni. “Ecco, il tempo. A me, a me la vostra lingua, a me!” Ogni tanto si distingue in quel gregge smarrito: “O Verbo, ‘sto cazzo!”, le voci di chi ancora non si è liberato dal peso dell’inganno, da quell’inganno che è l’anima pia, l’anima dei morti per infrazione di tempo. “Eppur si cade, eppure…” cantano in coro altri ancora dai loro buchi traforati freschi, milioni miliardi quasi infinti… atomi e santi, figli di puttana. “Ci siamo per la Revolution, n’est-ce pas?” ammiccano alcuni ciechi (o così pare) da un foro ampio, da dove le loro mani gettano fuori scavando terra, pietre, vermi – e ogni altra cosa gettata via precipita, allo stesso modo dei campioni. E ci sono iracondi sucidi, scorregge libere che si chiamavano spiriti liberi, quand’erano in vita, ed ora invidiano, supplicano: “Dateci un posto, noi beleremo, noi vi ameremo d’ora in avanti. Ridateci il nostro re, rivogliamo Inverno!” “È passato oramai, crollato in terra barbarica, il sole d’Inverno!” grugniscono contro questi alcuni impiccati e fucilati, la loro voce si interrompe nella gola o a stento vi arriva, e se per i primi è un rantolo, per gli altri è un sibilo.
E i preti in gonnella, lasciano che il vento artificioso della caduta scompigli le sottane e mostri i loro uccelli pietrificati, marmorizzati e loro, i penitenti della fica, pregano e stracciano pagine dai breviari e si insultano a vicenda, dicendo: “Ah, puttana è la Vergine, puttana cento volte!” E un altro: “Io lo sapevo, ma tacevo.” E ancora: “Eppure l’Impero crollava e io non credevo più nei mercati!” E tra di loro – silenzioso, in un punto convesso della spirale – Paolo di Tarlo, scrive col suo sangue lettere a Cristo. Lettere d’amore. Fosse almeno riuscito a confessargli la proprio omosessualità, lui, il più estroverso e il più disprezzato – ma l’amore, Paolo, l’amore si paga sempre a caro prezzo!
Da una sporgenza, che pare un balcone, stanno appese a fili fissati nella roccia – corona del Re, su cui tutto poggia e tutto cresce, in crosta – le donne dei poeti (o sconosciute!) nude e sgocciolanti, eppure mai secche, poiché dal balcone al quale sono affisse – il chiodo per loro era nella gola, il silenzio eterno in cambio della bellezza – precipita un fiume infernale, che come il Gange ricade sulla testa di Shiva, così esso ricade su quella del Re, il più infernale fiume d’Europa: il Sarno.
I Parnassiani al tavolo seduti, in posa, tranne uno, le Maitre au cul. Questi piange come un matto, ma nessuno si volta a chiedergli il perché del suo strazio, e si strappa i capelli, che rigogliosamente ricrescono cotidie (nulla dies sine volnere). E i romantici à la mode, vestiti bene, spettinati meglio, spandono un profumo di mirto e muschio, e la loro muffa la chiamano amore, e così gemono e fingono di gemere al loro profeta: “Dottore, dottore ci aiuti, ci dica quale posa dobbiamo assumere, e se durerà!” “Oh, amici miei, non vi preoccupate, prima o poi reinventeranno anche voi, come me, che sono dottore, mago, profeta, grande alchimista, innamorato, pazzo, dispregiatore di cavalle – oh, currite, currite… che se v’acchiappo!” E i loro figli appena nati e già continuamente morti, i loro figli futuri e già presenti – sono schizzi di seme e si muovono e sbattono e non sanno nemmeno come gemere. E non c’è voce che non declami il proprio nome, perfino i ghigliottinati, che tengono le teste confitte nelle mani e come ventriloqui parlano e insieme muovono la loro stessa bocca. E i claustrofobici piegati su stessi a fumare pagine e scorreggiare (proust-proust!). E poi le donne inizio Novecento, affacciate alle finestra coi loro culi pachidermici e di fronte, in un punto convesso, ricurvo, Marinetti e Breton siedono legati per le mani, schiena contro schiena, anche qui non potendo amarsi, pur desiderandolo. E cacano, perché il luogo puzzi ancora e mai come ora (Duchamp a quel tempo ancora non aveva inventato il cesso).
La spirale di calcare e muchi, d’un tratto, si fa più ripida, levigata. (L’uguaglianza prima di ogni altra cosa.) Il freddo, le guerra, i morti. C’è silenzio, per qualche istante, e le voci d’intorno pare che non siano mai esistite. Si vede solo un disperso, un uomo solitario, dal passo e dall’abito si direbbe un professore, uno che ha dimenticato di essere figlio, prima di voler essere padre. E ha tentato di evirare il padre, fallendo! Alla fine, s’è rimesso come un piccolo insignificante peccatore nella mani di qualche dio.
Più giù ancora, dove finisce, se finisce, la spirale – o Ideale, non t’aveva già ucciso Omero? –  si cade attraverso un cancello. Tutto precipita. E il precipizio si fa di nuovo pericolosamente affollato. Fumi intossicanti e cori di protesta. Televisioni che trasmettono pubblicità di dimagranti alla cocaina, palinsesti. Divaricatori di prepuzi, allungatori di fiche e creme d’ano – per la ricrescita, per la decrescita. E pomate d’austerità e profilattici oculari. Dalla radio annunci di immortalità. Andy il penultimo, triste come un bambino orfano, è una mummia in cellophane. A lui – almeno a lui – in premio spetta la vita eterna, gli altri o sono l’inferno o sono scatolami. E non si vedono più uomini, né donne, non si riconoscono più caratteri, perché tutti ormai – più ci si avvicina al Re – si fanno schiavi, milioni miliardi infiniti… e restano solo i loro nomi anonimi, al limite, scolpiti nella merda.

La caduta non finisce, eppure trova il suo limite – il suolo, l’impatto. Caviglie, spalle, ginocchi e clavicole esplodono all’impattare la terra.
Diego è il primo ad alzarsi, zoppicando sul destro; uno a uno si mettono in piedi gli altri: Sade smascellato; Dostoevskji e Moresco perdono un’occhio, uno sì e uno no; Platini ha il ginocchio maciullato; Beckett gronda siero dagli orecchi; Nietzsche infine perde il senno.
Eraclito rigurgita pezzi di fegato e denti; e D’Annunzio dal petto forato e l’uccello inzaccherato del fango del culo di Sacher-Masoch, incastrato; e Pasolini (Carlo) senza nemmeno un dente per lacrimar; Cervantes sbracciato e Caravaggio infilzato; e Bukowski in un pozzo di lacrime e sangue e malto incrostato. E Sartre educato e evirato. E Pound dai polsi tritati, et Eliot, gli occhialini spezzati e la nostalgia dell’ardore (l’arsura) mai avuta – abíta.
Ed Omero, l’aedo, infilzato (cade la spada anch’essa, la ferita con quella) e Schiller, immagine d’aedo, con la ferita figurata.
Et il cranio di Dante è un ammasso di stagnola rimodellata – i fori delle nari, allargati, annusano terra e casa, sangre y mierda.

La pelota arriva più lenta, intonsa e schiumante. E rotola e incontra infine un piede di legno intarsiato di insetti neri. È il piede di un trono: i piedi consunti di uomo, le sue gambe secche, le unghie corrose di bile verde o nerastra, gli occhi ppena dentro i recinti.
“Simili miei, fratelli” la voce di Charles le Roi si alza come da uno stomaco rivoltato. “Siate i benvenuti nel mio regno.” Incrocia Dante con le pupille dilatate. “Non stupirti, Alighiero. Prima di me nessuno mai ha inteso la colpa e la pena. E la caduta.” Ai suoi lati un uomo e una donna fremono e svengono. Ed ancora all’Alighiero, ammonisce e deride:
Et tu n’attends plus la mort qui viendra,
mais libertè tu recherches, sì chére,
comme sait qui pour elle vie refusera.
“Questo è l’Inferno dei Moderni. Ora fate ciò che dovete, cari Titani, ô bellezze decomposte.”

Primo è il dolore. E i Titani tenendosi a stento sugli arti, naufragati dagli urli di quelli che sopra e di lato, muovono in mezzo. Devono muovere. Per la prima volta incontrano il freno, la resistenza – la coscienza. Il dolore è la prima cosa, la partita deve continuare.
Piangono. Altri ridono sboccati. Alcuni pensano alla fuga – ma non c’è uscita se non attraverso la partita. Non possono e devono – è la cantilena della follia, la coscienza infelice.
“Ma Hegel non era già morto?” Fahridi cadendo lascia scappare due parole dal recinto.
“Appunto” Quijano coi piedi di sopra e la testa pure, come un gatto capovolto, un animale notturno “questo è il suo luogo più proprio”.
Tali acrobati evasi, i due atterrano sui piedi senza perdere un metatarso. Il mugghiare obliquo del luogo non gli intacca l’aplomb (il culot, o lo spirto della Commedia). Tali acrobati evasi cercano il punto di fuga – attraverso la partita. Atterrati, siedono a terra (un tappeto di liquidi verde bottiglia, verminaio) agli antipodi del trono di Charles le Roi; in mezzo, i Titani. Osservano il loro dolore – la via, il punto di fuga – e non possono altro se non sperare che quelli, i Titani, battagliando aprano la strada. E dove la speranza è l’ultima cosa, il posto puzza più ancora.

Nietzsche per primo si scrolla le cose (i freni, la coscienza) di dosso: rimette la pelota al rotolare, di suola. Correre e rotolare – cadere. Muggire di corpi biliosi, scolanti, sui lati. Dolore. Sì.
Gli altri seguiranno, come hanno sempre seguito. E seguono. Lentamente i corpi dimenticano e si lanciano. Sguazzano nel verminaio tra le urla ubique di quelli di sopra.
Pound si lancia in avanti, e Pasolini ed Eliot. Non è più chiaro chi giochi contro chi, non è più il punto. La sfida è una e per tutti uguale. La pelota non rimbalza ma scivola e stagna. Gli occhi di Quijano e Fharidi incrociano il trono, lo sguardo disceso e morto, fermo, di Charles le Roi.

Qu’est-ce que c’est?” domanda il re, che ha per corona l’inferno – altissimo sopra la sua testa. “Pourquoi vous? Êtes-vous là  à mourir? Ou à jouer?”. Nelle occhiaie nere si passa le dita come se si risvegliasse dopo una lunga attesa. “Non capite il francese. Parlate italiano, immagino. Et moi, je dois être le barbare!” Conchiude Charles, con garbo sofferente. Sputa in un piccolo vaso che ha a fianco, sorride. “E’ molto che attendo” riprende a dire “e di ferite, come vedete, ne ho piene le parole.”
Fharidi e Quiano muti, ma integri, non sanno che dire. Poi, Fharidi rompe l’indugio: “Diccelo tu che cos’è. Tu es le Roi, nous ne sommes que des adeptes!”. Quijano ride. “Non iniziare – lo blandisce la voce di Quijano – che poi ti devo seguire. Qui, il luogo puzza. E anche le Roi.”

Intorno lo slancio dei Titani è univoco. Dall’alto i dannati scolano e urlano e sputano. Piove, sebbene il cielo non esista più. Lo slancio, però, se ne fotte degli occhi della platea. Lo slancio dei Titani ha uno scopo: bisogna sporcare la pelota, di nuovo. (Repetitis iniurandum!).
Pound ferma la palla-parola sotto la suola della scarpa, alza lo sguardo. È uno contro tutti e tutti per uno. L’americano si sceglie T. S. Possum like a rolling stone, lo chiama a sé. Palla corta, uno due veloce. Pasolini non ci sta, non ci crede più che altro che sta proprio là, all’Inferno, come sul Pratone della Casilina, lui, Carlo, la Reine, sdentato e sborrato. E si lancia alla rincorsa di Pound, ma il suo doppio passo, un piede qui l’altro a Salamina, disorienta el Paso, che cade, si sbuccia un ginocchio. “Ah! Generazioni di uomini!” impreca.
Nietzsche bigtime Moustache, fuori di senno, marca T. S. Possum, senza palla, colpendolo nelle ginocchia. “Sciogliti – gli urla – sciogliti prima che t’afferri la paura! Prima che io t’afferri”. Poi lo abbandona lì sul posto – come un qualsiasi discepolo – e torna ad inseguire la propria ombra senza baffi.

Dove il campo si restringe, in direzione del seggio del re, Henry Chinasky non ce l’ha fatta. Sta appoggiato spalle al muro, il ventre squarciato. Sciamano intorno al morto le Muse, puttane, cortigiane, dalle braccia insanguinate. Corrono in ressa, tagliano, estraggono gli organi, iniziano a imbalsamare il cadavere, alcune, quelle che paiono più anziane, più esperte. Altre, più giovani, scavano tra le viscere, cercano il pranzo del re. Vaticinano e cantano. Agathe, giovanissima, dalle grandi speranze, preferita del Re, è l’unica che non cerca, ma sulle braccia tese regge un vassoio con tre piatti, tre forchette e coltelli. Infilzato come su uno spiedo, il fegato viene servito a le Roi – che ne taglia tre grosse fette. Ne ripone una in ciascun piatto, il succo colante è raccolto in una brocca.
Poi le Roi: “Sedete – li invita di nuovo e con un ampio gesto del braccio, le ossa scricchiolano – qui ai miei piedi! Mangiate e bevete. Soffrite! Qui, chez moi, è il dolore prima di ogni altra parola, prima di me addirittura!”
I due fanno qualche passo nella melma, verso il signore della melma. A bere al brodo primordiale della modernità. “A lui – sospira Quijano, e non trattiene le lacrime – a lui dobbiamo anche l’abito, non solo la bestia che c’ha messo in corpo”. L’angoscioso silenzio di Fahridi dall’occhio ceruleo, è la risposta. “L’inganno – è impazzito Quijano, prima piange, subito dopo ride – è dovunque. La puzza… tira giù il naso, qui giù l’esalazione ti brucia le narici. La merde, mon ami, est le secret!” Fahridi sostiene il silenzio. Di scatto volta la testa, strizza l’occhio. Sghignazza. Fingeva – sei un coglione, Quijano!

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Gli altri episodi qui, et altrove, et qui et ivi, ibidem