Sono McMetis, e comincio sempre da qualche parte. Oggi, con questa macchina nera – aerodinamico infallibile carro acheo! – vado a un incontro, che uno di loro mi ha comunicato, al telefono. “Non portarti i remi, si va sul carro.” Mi ha detto, per convincermi e strapparmi un sorriso. Io non rido. “Adelante” ho detto alla voce nel telefono. Poi, mi ha istruito sul Concilio. Ha usato cifre. Ha detto, nella voce sembrava un ragazzo: “Domani vengo io con te, fino a un certo punto. Poi mi volatilizzo.” La mia mente si è sentita di nuovo incoraggiata dalla sfida.
Mi sento stanco? No!

“È l’ultimo Concilio. O vincono – oppure?” Mi dice, sembrando una luce nel fondo del tunnel dove la macchina nera slanciata sta penetrando. “Ogni punto di arrivo mi è costato caro – rispondo – e in fondo dove sono arrivato? Anche l’Oceano, certo, non me lo sono negato. E neanche il mare del Nord, fino all’Irlanda. E ogni volta, qualcuno è venuto sembrando un ragazzo e mi ha detto che era l’ultimo approdo. È questo fatto di cominciare, comunque cadano le cose, da una parte qualsiasi!”.
Ora quello che sembra un ragazzo, ma non lo è, non parla più. La macchina è silenziosa.
Mi dico, per consolarmi, che  non so dentro quale confine mi spingeranno, non so come. Intuisco, però, la trama, già posso sentirla svolgersi e intricarsi tutta intorno, anche da questo sedile posteriore seduto accanto a questo ragazzo, che finge di non essere una donna. C’è una sola cosa certa, però, ogni volta che comincio qualcosa: il quando.
Arriviamo dove la torre di vetro bianco acceca. Mi porto una mano sugli occhi, anche quello che sembra un ragazzo imita il mio gesto, ma è innaturale, finge. Io li vedo i suoi occhi aperti, spalancati, azzurri, mentre io anche con lo schermo della mano ho bisogno di stringere le palpebre. Non dico niente, da me vorranno pazienza a cominciare da ora.
“Sei calmo?” mi chiede, sembrando nella voce una donna e nel volto un ragazzo. Rido. “All’ultimo piano, sono tutti là. Entrerai dal retro, prenderai un ascensore di servizio, ben nascosto agli occhi degli uomini. Chiunque si presenti non deve riconoscerti, quindi taci, che è meglio.” Ride, e io capisco che non riesce più a fingere di non essere più di me disperata, eppure resto impassibile, sebbene i pensieri mi si contorcano in testa. Ora – mi dico – me ne fotto dell’uomo e delle sue verità. Dov’è l’uscita, questo soltanto mi interessa. “Allora – le rispondo, perché in fondo non posso smettere di parlare – questa volta non c’è disvelamento? È cambiato il metodo? L’evidenza, che mi ha costretto al freddo Norte, può mai confinarsi in una torre bianca, accecante? Non può! È dentro, prima di fuori, non l’esperienza per l’esperienza. A che serve, ragazzo, fingere ancora?”
Tace ancora – allunga lo spazio, perché vuole che le parli ancora, infinitamente. Allora parlo. “Ora, sì, mi è chiaro. Non si può stare sempre così dentro, senza correre il rischio di diventare mostruosi!”. Non sorrido, non voglio consolarla. Lui, coi suoi occhi di donna e i capelli anguicriniti e indocili, per la prima volta sospira.
L’auto si ferma. Quello che sembra un ragazzo simula un altro sorriso, mentre chiudo lo sportello. Mi hanno lasciato sul verso della torre, che ha la stessa forma, colore e bianchezza dell’altro lato, il recto. Entro, sospingendo la porta quasi invisibile. Appena superata la soglia, la porta scatta e si chiude automaticamente. Una volta dentro – dal verso – non si esce più. “Quando la smetteranno – ho pensato – con questi giochi di illusioni? E l’automatismo li ha solo facilitati.”
Non vedo molto a causa di una luce fioca. Mi dico che in fondo ogni cosa è al suo posto, ricreata ad arte e, di conseguenza, in uno scantinato la luce necessariamente è bassa. Intanto avanzo. Si fa chiaro nella penombra un cerchietto blu elettrico, che a sua volta ne contiene un altro più piccolo e oblungo. Una volta entrato nell’ascensore, ce ne sono altri di quei pulsanti cerchiati, ma solo l’ultimo è illuminato. Lo schiaccio, l’ascensore parte veloce, superando muto ogni piano. Alla fine, pochi secondi dopo, un campanello preannuncia l’arresto. Esco. Il piano è vuoto. “Non c’è nessuno, ci sono solo io” mi dico, rido forte. “Nessuno, solo io!” mi ripeto, a voce alta. Non c’è eco a quell’altezza, non c’è riverbero. L’ambiente è totalmente insonorizzato, fatto che non mi stupisce, sapendo chi devo incontrare.

Inizio a guardarmi intorno e noto che ci sono due porte e tre sedie. Mi avvicino e mi siedo. Attendo. Eppure non trascorre molto tempo che una delle due porte, praticamente identiche, si apre. Non ricordo bene se quella sinistra o quella destra, perché ero già concentrato su ciò ce sarebbe accaduto di lì a poco.
Dalla porte viene un rumore di voci sussurrate, come un vento leggero. Mi alzo, da una delle tre sedie – questo piccolo particolare asimmetrico mi stupisce, ma non dico niente – e muovo il primo passo verso il Concilio.

Sono solo in quattro, lontani, accasciati intorno a un tavolo a U. In mezzo dovrei starci io, nel recto di una sala di questa torre bianca, fittizia. Mi aspettavo l’intero corteo – non merito di meglio?Non importa quello che merito. Uno di loro, lo riconosco, con l’indice mi fa di avvicinarmi. È il padre tonante, ma è strano, marroncino. È invecchiato anche lui. In ogni caso indugio – un particolare mi fiotta alla testa, le sedie! Dietro di me, nel verso del recto, le due sedie stridono sui pavimenti accecanti. Qualcuno grida o scorreggia – i legumi, alito della terra. Ridatemi il mio mare, di nuovo! Non indugio più: anche stavolta la cosa deve continuare, e finire. Presto.
Sono solo lì in mezzo. Solo in mezzo a quelli che sembrano essere divinità – il cui favore non giocherò più alle carte…Ho mai giocato alle carte? Io? Vieni giù, Penelope, con un poker d’assi non avresti giocato anche tu…il talamo? Il ritorno. L’altro inganno.

Sono in quattro. Mi scrutano. Zeus padre – marmoreo e scacazzato come una statua in pieno centro, ad un passo dalla fontana, stormi di uccelli crapuloni lo inondano di quel che resta e va espulso – mi indica il posto. Al suo fianco un uomo bendato – barbuto – regge con la mano un bonsai luminescente – tu devi essere il primo autistico, Jahvé, e se non lo sei ci assomigli – penso e non dico. Non dirò più quel che penso ad uno di questi. L’ho mai fatto?
Sul lato opposto – il verso dell’U – una spastica forma, uno e trino, uomo-trino. Non capisco: è gas, o carne puzzante, o impalpabile barba? Cambia stato – e per ogni stato voce, e per ogni voce registro. Ed infine qualcos’altro. Una melmaccia spalmata sulla seggiola. C’è una pelota, una palla sul bordo del tavolo, immobile. D’improvviso si muove e cade.
“Allah! Cazzo!” è il padre tonante col fulmine scacazzato “dominati! La pelota non va ancora mossa!” Così fa la melmaccia, pare: pensa qualcosa e il suo pensare impone caduta agli oggetti. È lui l’inventore della gravità, non la mela da un albero.

C’è dell’altro, da qualche parte – un ticchettio, un battito. Il Tempo? No…io so cos’è il Tempo, per questo non lo dico. Mentre il Trino mi introduce – a modo suo, quel modo dialettico o spastico – con la scusa del collo ritorto – il vento ed il sale, il ritorno, il mare! – getto occhiate di lato, in profondità… e come immaginavo – speravo? – in una nicchia rinchiusa e trasparente, in fondo, quello che sembra un ragazzo, quella presenza più familiare ancora che… ed al suo fianco un uomo corvino in abiti da Secretario della Respublica: annota, batte su una macchina, prende il tempo.

“Mister McMetis” fa l’autistico, il più vecchio o il meno in forma, bonsai in mano. “La tua mera presenza nella torre bianca è sacrilegio e durerà poco.” Non rispondo – non so più cosa sia un’offesa per cui non valga la pena la morte. Trino sgaloppa  da dietro, come i cavalli nel Tempio. E il Tonante, dal centro del tavolo ad U, prende parola – e non mi guarda negli occhi. “McMetis, è l’ultima cosa che ti chiedo, la più grande. Ricordi quella donna, Mnemosine?” La melmaccia di lato freme e  con essa le sedie.
“Memoria” dico. “La troia di noi tutti.”
“Portala qui, con ogni mezzo.”
“Bene” dico. Mi tremano i fiati ma nessuno li vede – sono il maestro dei nascondimenti, McMetis. 

Mi alzo. Il ragazzo che finge di sembrare tale mi fa cenni dalla nicchia, mi chiama. Mi congedo dai quattro con un colpo secco della testa. Mi allontano. La mia testa ha visto più di quanto questi quattro immaginino. Eppure qualcosa c’è che mi spruzza nella mente il seme del dubbio. “Hai visto bene e a fondo, ma non hai udito.” È la mia voce, che lo pensa – mi chiedo – che cos’è questo deliquio? Nella mente e nell’orecchio sento voci, un coro monocorde. Poi la distinguo, mentre mi avvicino alla soglia. È la voce Tonante – ma appena la intendo si nasconde in un fruscio di foglie, o nel loro ricordo – e mi dice, accenna: “Dici alla donna: le tre cose che tu hai, Memoria, sono il mio compenso al tuo rapimento. Non temere altro!” Il deliquio scompare e subito da dietro – qua tutti sospettano, non che si possa impazzire segretamente:
“Mister McMetis!”
Mi aspettavo un rinvio all’ordine. Mi giro: è il Trino a dare alla voce, in versione gas. Rido.
“Mister McMetis – a nome di tutti io mi devo di dirle che noi, come tali, divini – come tali, dico, avvertiamo l’ananche, la nécessité di svelare a lei quale mezzo di uno scopo più ampio, di fare dello svelamento il pungolo sul quale la sua futura azione possa dipanarsi nella completezza di ciò che è giusto…” Poi cambia, Trino, da gas a carne puzzante: “La verità per McMetis”. E poi la forma sventolante, impalpabile – vento e pelo: “La pelota, la parola – devi credere!”
“Signori”, gli dico: “tre cose ho in schifo. L’uomo, il dio e la verità.” Rido e non si vede – ridono i fiati da dentro. “Per questo, farò il da farsi senz’altro indugio.”

Mi congedo di nuovo – senza gesti di circostanza stavolta. Le mie parole bastano. Avverto alle mie spalle il chiacchiericcio – dubitano di me. La mia moira infame è il mio stesso potere.

Il ragazzo simulato ed il secretario mi prendono da parte. Il giovane con le mani delicate, dissimulate, mi offre una saccoccia di tela – perché il contenitore pesa quanto il contenuto. “È l’ultimo dono?”le chiedo, lui dissimulando sorride, adora la mia voce.
Il secretario febbrile, però,  mi cinge con gli occhi – con gli occhi mi spinge in un’anticamera di lato dell’ascensore. Sono uscito, sono leggero.
Anche la sua voce è lieve: “Mi chiami pure Maclavello – nel dubbio, non mi chiami proprio, non è questo il punto. Lei deve sapere, McMetis, che non è il solo a correre la corsa. Ci sono altri due agonisti. Non glielo dico per amore di verità – io, si figuri, il vero è il pensiero debole – lo tenga a mente più avanti, quando ogni cosa le sembrerà perduta.”
Non dico niente – faccio sì con la testa per fare tempo. Le sedie vuote. Non credo di capire. Non dimentico niente, anche se non ricordo.

La seconda porta alle nostre spalle sbatte, una voce imperiosa saluta. Ridiamo, abbiamo già inteso la trama, la mia moira ed io.

***

Rinfrescate Memoria: sette, sei, sei (II), cinque, quattro, tre, uno, due