Recensire un libro fresco di stampa è tutta un’arte, con le sue regole e le sue trappole – un’arte che mi vanto di non praticare con regolarità.
La scelta dei libri di cui scrivere è sempre dettata da esigenze estremamente personali: il ruolo di certi libri o certi autori nel mio proprio percorso di studio della letteratura e di pratica della scrittura. Raramente, invece, mi è capitato di scrivere di novità editoriali: mi è successo con l’ultimo romanzo di Massimiliano Parente, ad esempio, o con un libro di Paolo Sorrentino.

Al netto del rumore mediatico dovuto alla nomina per lo Strega, scrivere di XXI secolo di Paolo Zardi (NEO. Edizioni) è prima di tutto un’occasione di confronto con un approccio alla letteratura a me affine: Zardi, infatti, come Musil, è ingegnere; nella sua scrittura la tensione tra scienza e letteratura, tra tecnica e anima, gioca un ruolo essenziale.
Questa tensione tra metodi compositivi e orizzonti estetici opposti eppure intimamente legati, nel romanzo di Zardi si traduce per prima cosa in una voce narrante infame, una che non esita a rigirare il coltello, a scavare nella melma, se non proprio nella merda, di cui è fatto il mondo umano. A portarla alla luce ed esporla per farla cantare:

«Alla rampa del terzo piano mancava un gradino: al suo posto un buco rettangolare aperto sulla rampa di sotto. Le porte di alcuni appartamenti erano murate; altre, sfondate, lasciavano intravedere stanze deserte. Sbirciò attraverso una di quelle: il vuoto portato a limiti estremi. I muri erano scavati da mani rapaci lungo tracce che un tempo avevano accolto tubi di rame o fili elettrici; mancavano le porte, gli stipiti, il pavimento, glil interruttori, le finestre, i sanitari. Abbandonato a se stesso, l’uomo non diventava un lupo ma una specie di blatta insaziabile.» (posizione 900, ebook).

 

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C’è anima e anima

Anima e esattezza è l’orizzonte dualistico dentro cui si muove Ulrich, l’uomo senza qualità de L’uomo senza qualità di Robert Musil: rigore e invenzione, scienza e arte, precisione e metonimia sono in conflitto tra loro, sono opposti, eppure, come doppi, si appartengono.
Con Musil in mente, m’imbatto in un paio di passaggi di XXI secolo che mi sorprendono. Preso dalla cupidigia della trama, dalla voglia di finirlo (cosa che ha preso non più di tre giorni), devo avere sorvolato indizi meno eclatanti – così, quando leggo:

«La pelle, i capelli, i lineamenti del viso, si stavano svilendo; l’anima – se là dentro ce n’era ancora una – stava evacuando quel corpo, lo stava abbandonando.» (posizione 812, ebook)

Ho un sussulto. L’anima di Ulrich e di Musil dev’essere una figura diversa da quella che usa Zardi. L’autore di XXI secolo, qui, si riferisce, alla lettera, a quell’equivoco di ogni teologia – per essere più comprensibile, forse, mi dico.
Più avanti leggo:

«Ma il desiderio, quel cancro dell’anima, se ne fotte delle conseguenze. Sotto c’è sempre a questione della vita che deve perpetrarsi, la storia del gene egoista, cose così.» (posizione 1220, ebook)

Ogni dubbio, a questo punto, viene meno. Zardi flirta ufficialmente con la parte bigotta del lettore (ogni lettore infatti ne ha una, più o meno nascosta, più o meno digerita). Mi dico che questo ammiccamento col Congresso di Vienna (o Concilio di Trento) che è dentro ogni lettore, da un lato rende il libro più fruibile, più digeribile, più diretto; dall’altro inesorabilmente lo abbassa. Tuttavia non lo abbandono, voglio arrivare in fondo, e lo finisco.

Una mezza distopia

In un testo per Letteratitudine, Zardi scrive di come la lettura di Perché non siamo il nostro cervello di Noe Alva, «un saggio che tenta di smontare il mito della coincidenza tra materia grigia e coscienza» abbia giocato un ruolo importante nella preparazione di XXI secolo. Mi dico che forse è ingiusto giudicare un libro, un romanzo, in base solo a una divergenza dottrinale con l’autore. Che bisogna in fondo rispettare le sue posizioni teoriche, che una recensione non è un processo alle intenzioni. O sì?
Il fatto è che questa divergenza dottrinale (metonimia vs. anime del purgatorio) si riflette in un altro elemento fondamentale del libro. La cornice di XXI secolo è, infatti, il declino dell’Occidente – una cornice disegnata con tratti rapidi, un declino che è, in qualche modo, un’evidenza. Ci sono due elementi, a questo punto, che mi fanno sussultare di nuovo. Il primo è che la questione del declino dell’Occidente è uno dei temi, dei topoi, affrontati con più frequenza da filosofi, scrittori, economisti politici, linguisti, ecologisti e strutturalisti del XX secolo. Nel libro di Zardi, il confronto con questa tradizione non c’è, è evitato o peggio ancora appena abbozzato, arronzato. Il secondo punto mi viene addosso al leggere questo passaggio:

«Sembravano macchine infernali, costruite per confutare la teoria del libero arbitrio: dimostravano che i corpi reagivano meccanicamente alle sollecitazioni esterne. La fisica, la chimica, lo strapotere del DNA.» (posizione 1275, ebook)

Il declino dell’Occidente è correlato allo «strapotere del DNA». La cornice di devastazione blanda che Zardi disegna per descrivere il XXI secolo (con delle punte di ironia geopolitica e psicologica notevoli) si sgretola davanti a questa correlazione. Non perché sia inverosimile, sbagliata o assurda – in molti l’hanno sostenuta e la sostengono oggi; piuttosto perché è semplicemente data per buona, non sviscerata, menzionata di striscio (come un cartello all’ingresso dell’arena di un teatro “mind the step”, “attenti al declino”) quando invece, come elemento principale della cornice, avrebbe meritato più spazio.

O meno spazio. Non è detto che un’opera letteraria debba essere necessariamente una “narrazione a tesi” o un “romanzo di pensiero”. È la via di mezzo che affossa XXI secolo, questo fare l’occhiolino prima al “realismo sporco” alla Carver per poi lanciarsi, di tanto in tanto e un po’ svogliatamente, nella speculazione teorica. Un’idea (il declino e la distopia) può anche passare in sordina, crescere e sbattere in faccia al lettore attraverso la mera forza delle cose narrate, per assenza o insinuazione, senza diventare, alla lettera, l’oggetto principale del romanzo stesso. Quando invece un’idea (per di più una così forte, così densa di conseguenze) ne diventa il tema, tende a prendere tutto, a volere tutta la scena per sé, ogni dettaglio della struttura e della trama del romanzo, esercitando una forza d’attrazione così forte sugli altri elementi da finire per disintegrarli (come, ad esempio, nel caso de L’uomo senza qualità).

E allora, il declino dell’Occidente per via dello strapotere del DNA o lo abbracci del tutto o non lo abbracci per niente – fai la fine, altrimenti, di Interstellar, dove l’amore finisce per generare interazioni quantistiche ad alto tasso di deus ex machina.