NaSala, aNale, dite pure come vi pare. Quello che conta è l’abboffata, lo sforzo del superamento: il fare spazio alla proteina successiva, il concedersi al gioco come a un rito inevitabile.

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Come se tutta la violenza fosse sospesa in equilibrio, sul punto di abbattersi
 Ribeyro

Tra i tentacoli autostradali e i capannoni cinesi svaligiati, in una zona industriale perplessa si rizza la skyline dei poveri, poco dopo simbolici silos ed ermetici container dalle tinte portuali, eccolo: il centro direzionale. Il nido di aquile costruito aldiquà delle bidonville e dei quartieri straccioni della stazione centrale, al confine con la muraglia color gialliccio scuro di paura del carcere di Poggioreale. Sbuco dal treno statale con gli altri pendolari, e come una truppa inconsapevole, marciamo disuniti e sparpagliati nella stessa direzione – il centro direzionale napoletano – chi con la parlantina bordeaux e chi col raggio della rassegnazione, un po’ blue.
Da Gianturco il percorso è breve ed è come se lo conoscessi da secoli, dall’anno zero dell’urbanizzazione selvaggia: scendere due rampe di scale, passare sotto un sordido ponte che gocciola qua e là, attraversare le arterie a quattro corsie, prendere l’entrata anonima di un parcheggio e poi salire dal sottopassaggio che odora di urina mista a carbone. Così arrivi in alto e sei finalmente fuori, sulla tabula rasa nel mezzo di una dozzina di grattacieli, curiose attrazioni per impiegati, o giovani cercatori di un lavoro d’ufficio. Stage, pardon.

Io cerco il Palazzo di Giustizia, quell’orizzonte giudiziario che volevo sconfessare a tutti i costi e a cui ora mi devo riconvertire alla svelta. Prima di entrare nel termitaio, attraverso il metal detector dell’ingresso riservato agli avvocati, guardo l’aria tersa e, al margine del cielo dimezzato, dietro all’edificio dal nome ispanico, spunta l’anca del Vesuvio. Lo riconosci all’istante, anche se sembra più tozzo da quella prospettiva, quasi intimidito, un po’ depresso in mezzo a quegli energumeni di recente fabbricazione. L’esatta proporzione del quadro è data da una piccola cupola alla sua sinistra, una chincaglieria bizantina di maiolica verde e ocra che a tratti riflette un’antica potente scintilla. Ma non sempre. Il grosso dello scintillio viene da stalattiti eccellentissime dell’isola artificiale, come dalla faccia cristallina del Consiglio della Regione. Mi decido allora a imboccare il Palazzo di Giustizia, l’ago della bilancia truccata di questa città paradossale, e mi lascio ingoiare dalla Sfinge maschio, procedendo anch’io nel vivo del grande ossimoro.

Il polo d’attrazione fisso prima di farsi la croce in udienza o peggio ancora in cancelleria è il bar, quello con le scalette.
Ore 08.00. Davanti al bancone del bar-con-le-scalette si schiera la promiscua falange di giubbini, svetta solo qualche cappotto dalla linea elegante di cipresso, e aldilà di quella siepe girano i vortici di tazzulelle. E già lì, si consuma il primo rito collegiale.
Quell’allegria insulsa nella disperazione generale è solo l’inizio, anche altrove spuntano continuamente gesti teatrali nell’indifferenza comune. La noia e l’insormontabile fatica della burocrazia creano una cappa spessa, ma tutte e tre le torri del tribunale sono ugualmente cariche di un’elettricità superlativa. La monotonia dunque è solo ingannevole e l’ipnosi supersonica; dietro c’è tutta un’ansia diffusa, presaga di catastrofi remunerative o entusiasta della doglianza umana.

Il tribunale di Napoli si sviluppa abnorme in lungo e in largo, con una forma illogica, ma non del tutto asimmetrica, in lui c’è qualcosa di glaciale eppure pulsante, una luce grigioverde, uno sguardo di gatto redivivo. Molto meno mostruoso però e assai più abbordabile di un Leviatano.
Nel foro di epoca romana c’erano sia la piazza che i templi, e si avvicendavano in ordine sparso  gli edifici di culto e del potere politico a strettissimo giro, tutti sotto lo stesso tetto errante del volo di uccelli migratori. Come il diritto romano delle origini era pronunciato (iuris-dictio) dai pontefici, così ancora oggi in questa ziggurat del potere statale, o meglio nel ramo giudiziario della trinidad de’ poteri temporali, resiste ancora un quid indissolubilmente sacro, una ‘ntecchia di mistero, un cecio sovrannaturale.

Questa modesta piramide documentale somiglia infatti al tempio di Babilonia, al castello di Praga e alle lucide allucinazioni di Esher messe insieme. Solo che dentro circolano gli autoctoni napoletani, i meticci provinciali e qualche apolide. 

Nella piazza coperta si aggirano, alcuni ad occhi chiusi, altri scaraventati su una terra aliena, frotte di ciarlatani benvestiti, impiegati di ordinaria amministrazione, brutti ceffi, testimoni con una mappa tremolante in mano, garzoni del bar, modelli sartoriali, modelle in carriera sui tacchi a spillo, morti di fame color cenere, vecchissimi giudici con l’aria qualunque, aitanti pubblici ministeri con l’aria di nobili feudatari, stormi di zingari, stuoli di praticanti, coppie di carabinieri vaganti. Tutta questa umanità variegata e torrenziale che scorre nei cunicoli tra le torri A, B e C dà il capogiro, la stessa sindrome panica nelle linee della metropolitana di Parigi.
Per il momento, ammettiamolo, è sempre il solito brivido che cerchi, perdersi e ritrovarsi nel flusso del molteplice. Tu ti vorresti scolare tutte le facce una ad una, imprimerle nella fantasia più che nei ricordi, per completare l’album delle figurine mentali. Ma non si può.

Se visto da fuori il Palazzo di Giustizia appare grande, dentro è tutto in miniatura, abbreviato puntato e sottinteso, in una codificazione ambulante che pullula e aspetta impaziente gli ascensori esauriti. Una volta ho sentito qualcuno chiedere a gran voce del Dottor della Ragione. Mi è suonata come la tromba della fine del mondo.
All’ingresso del tribunale finiva il mondo dei significati comuni e ne cominciava un altro, dove anche i suoni delle parole avevano un semitono diverso, un’ombra cifrata, e le sagome degli uomini di legge davano l’impressione di piccoli atlanti carichi di un interesse globulare.
Un altro mondo esplodeva e germogliava dietro quell’apparente coltre di grigiore, di camicie immacolate, di gargarismi prima delle arringhe, di espressioni intimidatorie dei veterani in un fascio di rughe frontali.
In quell’ancestrale gabbia aperta dal look futurista, c’è insomma un autentico intrico di emozioni: si respira il terrore o la strafottenza dei detenuti giovani, in ultima fila puoi cogliere il savoir-faire penitenziario advanced dei pregiudicati o i problemi familiari del presidente della Corte, l’ordinario guizzo di follia dei cancellieri e gli intrallazzi inenarrabili dei avvocati di tutti i generi, forme e dimensioni, come pure l’amore spremuto dalla moglie dell’imprenditore fallito.
Era davvero un porto verticale in cui legale e illegale contrattavano la loro partita quotidiana, che si celebrasse un’udienza preliminare per il reato di associazione di stampo camorristico o una lite civile sull’altruità della cosa, in quel tempio sconsacrato, in quel benedetto tribunale fottuto giungeva ancora l’eco dell’eterno ed incessante agone tra bene e male. Dietro alle montagne di papiro muto su cui migliaia di cosce scattanti o con le vene varicose s’arrampicavano, si intaccavano i fegati della metropoli più scassata d’Europa e così si spiegava tutto il fiume sconvolgente e incomprensibile dell’esistenza umana.
Dopotutto, la caotica follia dell’applicazione della legge e l’aspirazione ottusa di disciplinare gli appetiti umani, forse mi piaceva ed io neanche lo sospettavo.
L’ambiguità del sacro nel profano e del profano nel sacro, non mi avrebbe né mostrato la Verità, né tantomeno presentato al Dottor della Ragione, ma al limite avrebbe potuto regalarmi qualche briciola di soddisfazione.
All’uscita, l’aria tetra del precoce buio invernale è spezzata dalle grida di ragazzini che giocano a pallone nel piazzale, pronti a prendersi a maleparole o pure a mazzate, se ci vuole. Osservo dunque che le liti sono parte integrante del gioco, mentre mi domando se questo gioco delle liti sarà il mio destino.
Mi sento così viva e affamata che ora posso ridiscendere ai treni.

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Questo racconto puoi leggerlo anche su Ô Metis IV – Forme brevi, scaricare il pdf o leggerlo su Issuu.