ISTRUZIONI PER L’USO
Questo racconto si può leggere in due modi, come il romanzo Il gioco del mondo. Si può cominciare dall’inizio, e proseguire fino a che la parola FINE non indica chiaramente la conclusione della vicenda. Oppure si possono seguire le indicazioni tra parentesi: ogni volta che si trova una lettera maiuscola tra parentesi, si scende a leggere il paragrafo contrassegnato da quella lettera nella sezione “Da altre parti”; alla fine di quel paragrafo poi si trova un numero, che riconduce su, a un paragrafo delle sezioni precedenti. Spero che sia chiaro, e che Palmer Eldritch mi perdoni.

A B., C., D. e…

(Z)

Dall’altra parte

1
Avrei trovato la? È a quest’ora, è quando arriva quest’ora, soprattutto, che devo resistere alla tentazione di abbandonarmi, di parlare, di raccontarle tutto. Il bevatrone è a riposo, o meglio va avanti da solo, per un po’. Lei è là, dietro al bancone, che mi prepara l’aperithe senza guardarmi. Io sono qua, come tutte le sere, che mi trattengo.
(F)

2
Lei è solo una ragazza, la ragazza del bar, una brava ragazza a quanto sembra, anche se tra noi non c’è quasi dialogo. Eppure per me è importante: certo non è la persona con cui ho più confidenza nell’universo (ma poco ci manca, e questo la dice lunga su come sono messo), però è sicuramente quella che vedo di più. Io non sono la stessa cosa per lei, lo so, di clienti il locale dell’aperithe obbligatorio ne ha tanti, ognuno coi suoi gusti, il matcha latte, il caffè turco, il litchi scremato. Ma non è questo il motivo per cui, alla fine, riesco a tacere, a non seccarla con me e il lavoro e la mia questione privata, anche se mi becca nel momento più deprimente della giornata: è che sarebbe inutile.
Raccontare, ogni tanto penso, significa far ricordare: riportare alla memoria di chi ascolta, rimembrare una cosa che già sa. Rifletteteci un attimo: tutte le volte che qualcuno vi ha spiegato o narrato qualcosa, e questo qualcosa lo avete davvero afferrato, vi ha davvero fatto risuonare una corda dentro, ebbene non avete avuto l’impressione che quella cosa la sapevate già, l’avevate sempre saputa? Non si può dire niente di nuovo: non si può realmente comunicare, se non qualcosa che la persona davanti a voi, in qualche modo inconsapevole o oscuro, non abbia già dentro di sé. E la ragazza davanti a me non capirebbe. Altra è la donna che io cerco.
(H)

3
Le stelle non sono mai state la mia passione, gli alieni non sono la mia fissazione. Eppure mi trovo qui, in questa città del deserto settentrionale – cieli tersi, pochissime luci – ideale per l’osservazione e la ricerca. Un lavoro vale l’altro, pensai anni fa, subito dopo il college, e accettai. Niente di più falso, niente di più vero.
(L)

4
Gli oli essenziali e gli aromi coloniali dell’aperithe iniziano a fare il loro effetto sedativo, tra un po’ mi calmo e le ordino qualcosa da mangiare senza arrossire, mando giù un boccone e ho fatto serata. Ecco, ma mi volto e non c’è, sarà andata dietro, nella carbonaia. Beata lei che ha libero accesso al propellente, io in ufficio devo fare i salti mortali per fregarmi un po’ di carbone: rischio, lo so, ma ho troppe macchine da far funzionare a casa, con quello che guadagno non ci faccio niente, mi serve più energia.
I due di fianco a me hanno scelto, un lime+cola e un orangin frizz, e ora posano i menu e passano a guardarsi negli occhi.
(N)

5
Il progetto è molto semplice: trovare altre forme di vita nell’universo. Trovare, non cercare: attenzione, mi disse sorridendo il biondo funzionario della Società. Certo, per loro è tutto ovvio. Il successo è assicurato; quando mai si sono sbagliati? Perciò mi hanno messo al Bevatrone. È un Bevatrone di ultima generazione con deflettore di raggi protonici a doppia locomotiva. Insomma una potenza. Il planisfero viene diviso da una griglia non euclidea in tanti piccoli quadratoidi: ovviamente ogni quadrato, che rappresenta una zona dell’universo da esaminare, non ha due ma tre dimensioni, considerando la profondità; anzi quattro, tenendo conto del tempo che la luce ha impiegato a farsi raggiungere; pertanto non è propriamente un quadratoide né un cuboide, più un parallelepipedo dai lati infiniti. Ma che noia.
Comunque io non è che debba fare granché, opera tutto il Bevatrone: io devo solo stare attento al nulla che succede, esaminare gli output, spostare il puntatore da una cella all’altra quando una zona è esaurita. Il lavoro sarà gestito in autonomia, mi disse il funzionario senza scomporsi, nella sua tunica elegante. Il che vuol dire due cose: uno, che la responsabilità di qualsiasi cazzata succeda qui dentro è sempre e solo mia. Due, che posso organizzarmi tempi e carichi come voglio. Certo, compatibilmente con il fatto che il Bevatrone lavora, e deve lavorare, a ciclo continuo, 24 su 24, altrimenti l’osservazione è invalida. Siccome però io riesco a operare al massimo in 2X, significa che ho 12 ore di lavoro e 12 di tutto il resto, il che comunque è dignitoso per gli standard di questo periodo.
Accettai. Soltanto una cosa non mi tornava. Perché solo uno, perché solo io, a fare questa indagine: se l’universo poteva essere scansionato con una tale precisione, un team di appena qualche decina di persone avrebbe trovato gli alieni nel giro di anni, se non di mesi. Non c’è fretta, mi sorrise il funzionario.
(O)

6
Ho dei limiti, mi rendo conto. Ci sono cose della vita che mi sfuggono, come a un tizio che è stato invitato a fare una partita a monopoli senza spiegargli le regole. Vede gli altri che ci stanno dentro, che si capiscono senza parlare, mentre lui fa mosse a casaccio. E qualche volta gli va pure bene: il che è peggio, perché gode di fortune inconsapevoli, immeritate. È per colpa di gente che ragionava come te, mi disse una compagna del college, mi pare molto carina, che Ludwig Boltzmann cadde in depressione e si suicidò.
C’è mai stato un periodo della mia vita in cui io sono non dico felice, ma almeno distratto, dimentico della mia infelicità? Non lo so: a guardare dall’interno, mentre vivo cioè, direi sempre. Mi sembra sempre di essere una persona normale, di condurre un’esistenza normale. È quando mi guardo da fuori, da un altro periodo di vita, che le cose cambiano, si fanno più chiare, più tristi, più dure. Quando ripenso alle mie compagne di classe: perché mi guardavano così? Che c’era nei loro occhi? Amore? No, quello no: ammirazione forse, curiosità come al circo, al giardino zoologico? O timidezza – quando credevo d’essere io, il timido – o soggezione, o semplice terrore? Non lo capivo all’epoca (ancora oggi è un mistero), ma almeno non me lo chiedevo.
E cosa c’è nello sguardo della ragazza del bar, oggi? Pietà forse, perché conosce meglio di ogni altro al mondo (all’universo?) i miei tic, le mie abitudini, le mie penne al salmone. O solo disgusto? Vorrebbe sapere qualcosa di me, o crede di conoscermi al primo sguardo, come io credo di conoscere lei? (vent’anni, nel tempo libero i fotoromanzi, massima aspirazione: diventare proprietaria del bar, sposarsi con uno che non la maltratti troppo, i gerani sul balcone). Guarda e distoglie, guarda e distoglie, qualcosa devo avere; ed effettivamente qualcosa ho, sono l’unico rimasto qui, il locale si è svuotato, l’aperithe è finito. È impazienza, ecco cosa, non vede l’ora che me ne vada anch’io per poter chiudere e pulire, pulire e chiudere, quale sarà l’ordine giusto? Che me ne vada per strada e poi a casa, che mi cali in testa, sugli occhi e sulle orecchie, il teledildo a vapore, senza una mezzora di sesso virtuale ormai non prendo sonno, si sa, è questo il motivo per cui mi serve sempre un po’ di torba extra.
(P)

7
Il Bevatrone è unico – l’ho detto che sono un po’ tonto, d’altra parte sono soltanto un tecnico, mica uno scienziato – perciò è inutile che ci lavorino più persone: la sua velocità è quella, è una velocità allucinante comunque, voi non avete idea di quanto universo ci sia in una sola cella, ma in ogni caso è una velocità limitata, e costruirne un altro a doppia locomotiva così, richiederebbe anni. Si spera che la ricerca dia i suoi frutti prima.
Il lavoro è in autonomia mi hanno detto, e io mi sono organizzato di conseguenza. Nessuno mi controlla, se non avvengono incidenti (come quello memorabile del primo Bevatrone, che nel giorno dell’inaugurazione andò distrutto, e non solo lui: si era ancora ai tempi del digitale elettrico, le macchine a vapore non avevano preso il sopravvento, preistoria), se non avvengono incidenti posso fare quello che voglio. E io ho deciso di cambiare l’ordine dei quadrati. Tanto, il risultato non cambia. Dopo un po’ che proseguivo dritto – fila uno, fila due, metà della tre – è stata tale la noia che ho iniziato a spostare il puntatore a casaccio ogni volta che terminava l’analisi di una cella: fila 8, colonna MMCDXI; fila 66, colonna LI. Cosa speravo di ottenere?
(S)

8
Eppure non prendo sonno. È finito prima il combustibile e poi io. Ho posato l’audiovisore del teledildo. Ho gli occhi aperti nel buio della mia stanza, ma non vedo la stanza. È come se stessi ancora nel locale. Tutto quello che mi succede, mi succede lì.
Troppa autonomia fa male al cervello, lo sapevo: a un certo punto ho pensato che se loro, se la Società aveva messo in piedi una cosa così costosa e seria, perché non potevo crederci anch’io? E così ho iniziato la mia, di ricerca.
Ho ragionato per analogia, e per contrasto. Per analogia: se da qualche parte c’è lei, allora devo cercarla. Per contrasto: invece di arare il mondo, o l’universo, in un reticolo di bersagli, non muovermi. Non andare da nessuna parte, non andare. Non fare niente, restare fermo. Immobile nello stesso posto: il bar.
La probabilità che succeda qualcosa è molto bassa. Ma non è zero. Che la porta d’ingresso, quella alla quale do sempre le spalle, si apra ed entri lei. Finora non è successo, ma questo non vuol dire, mi dico. O meglio, mi dicevo fino a pochi giorni fa.
(U)

9
Questo, dei tanti questo universo. Quello dove io ci sono, e lei no. Almeno non ora, non qui. Perché il fatto che lei, da qualche parte e in qualche tempo, ci sia è certo, come certa è l’esistenza di vite aliene. Inevitabile, introvabile.
Non posso farci niente, se non continuare. A lavorare, a fare sesso in virtuale, a bere the. Ad andare al bar.
Non posso fare niente, non posso neanche spedire questa lettera, spedirtela stasera in modo che tu la legga domani pomeriggio quando apri il locale e io sono già freddo, perché questa non è una lettera, l’ho detto che non so scrivere, è tutto uno sfogo nella mia testa, sì, uno sfogo come un eritema della pelle, una cantilena che non può concludersi, e non si conclude, neanche con la parola addio.
(I0)

Da questa parte

I0
Sono qui.
Posso vederti, ma non posso sentirti. Né parlarti.
Tocca a te, adesso.
Peccato, a un certo punto sembrava quasi che.

Ti vedo, ho detto, ma non è preciso. Ti immagino piuttosto; ti figuro, ti conosco. Ti so.
Chi sono? Una donna bellissima? Un organismo unicellulare, un filamento di Rna, un alieno con sole due braccia e due gambe, la pelle di un rosa orribile, e senza squame? Sono una riga di codice binario, un cervello di Boltzmann, l’autore di questo racconto, DIO?
Tutte queste cose insieme, forse, o una per volta. So che in questa incarnazione, se di carne si può parlare, in questa forma attuale all’interno dello spazio e del tempo, sono Zlla. O, come mi chiamano i miei correligionari ortodossi, 2114. E vivo, se così si può dire, qui su Marte. Dove per Marte si intende, secondo il Sistema Standard CrossGalattico (SSCG), qualsiasi pianeta terrestre che occupi la quarta posizione orbitante attorno a una nana gialla.
D’altra parte, anche se abitassi sul tuo Marte, neanche mi avresti trovata. Il difetto di questo strumento, che usi tutto il giorno, è che solo virtualmente è quadrimensionale: non più di quanto sia tridimensionale una linea che volesse rappresentare uno spazio profondo, a tre dimensioni.
Quello che voglio dire è che potresti anche avermi davanti agli occhi, e in un certo senso è così, ma se continui a procedere per quadratini, la vicinanza non conta, finché non arrivi alla cella giusta. (V)
(II) Il difetto tuo, invece, è che sei troppo debole, incostante, leggero: no, non te la prendere, io ti voglio già bene, te ne ho sempre voluto, anche se non so bene come sei fatto, e forse anch’io se t’incontrassi qui, tra la polvere rossa che si alza da terra a ogni passo, non ti riconoscerei. Ma tu, tu sei indeciso, ti stanchi subito: insomma non so come dirtelo, ma se avessi continuato a passare da una cella all’altra in ordine, con quel tuo sistema di lenti e specchi, bevatron o come lo chiami, ancora qualche annetto terrestre e mi avresti trovata!
Ah già, perché sì, è proprio questo che volevo dirti: io sono la risposta. Alla tua ricerca, alle tue ricerche. Entrambe. Tu le hai collegate in un modo che ti pare arbitrario, esoterico: gli alieni per lavoro / la donna della vita. Niente di più distante, come logica: eppure in qualche modo l’hai intuito, che potessero essere lo specchio l’una dell’altra.
Ma fai un passo avanti: non guardare nello specchio, per l’enigma. Non avere una maschera, abbi un volto. E vedrai il mio, volto. Punta il bevatrone nel quadrato giusto. Immaginami, creami, inventami, così come io sto inventando te.
Oppure, insomma, inizia a parlare alla ragazza del bar.

FINE

Da altre parti

F
“Le prime forme di vita apparse sulla terra sono i batteri, esseri dotati di una sola cellula, molto piccola e dalla struttura molto semplice”.
Siccome non ci riproduciamo per accoppiamento, ma per divisione, ben si può dire che alcuni tra i fondatori siano ancora vivi; siano ancora qua; siano ancora noi.
(2)

H
“All’interno dell’intestino di un singolo essere umano, ci sono più batteri di quante siano tutte le stelle presenti in tutte le galassie di tutto l’universo”.
Poi dite perché ho sempre preferito la microbiologia all’astronomia.
(3)

L
“All’interno e all’esterno del corpo di un essere umano, vivono e proliferano una quantità di batteri e altri esseri unicellulari, tale che il loro numero totale è superiore al numero di cellule che compongono il nostro organismo”.
Noi non siamo solo noi, insomma. Anzi, siamo meno noi che loro. E solo fino a un certo punto sembra corretto dire che loro sono nostri parassiti: sarebbe più giusto dire che noi siamo loro ospiti. Noi non siamo noi.
(4)

N
“Vi sono alcuni batteri che entrano in uno stato di quiescenza, senza riprodursi né nutrirsi, e si fanno sollevare dalle correnti su, fino al cielo, cioè nelle zone più alte dell’atmosfera: possono anche spostarsi da un continente all’altro, valicando gli oceani all’interno di perturbazioni atmosferiche. Sono anche in grado, a un certo punto, di scatenare delle reazioni chimico-elettriche che provocano, nelle nuvole dove si trovano, l’effetto della pioggia. Così i batteri scendono di nuovo a terra, in cerca di ambienti favorevoli per continuare a vivere”.
Capite bene perché dico che se mai scriverò un romanzo, i suoi protagonisti non saranno uomini o scimmie o extraterrestri, bensì esseri unicellulari. Ma non scriverò mai un romanzo.
(5)

O
“Avendo a disposizione un tempo infinito – e di fatto, lo abbiamo – qualsiasi combinazione di atomi possa configurarsi, lo farà: nel lungo periodo, non un esercito di scimmie ma una sola, scriverà Amleto; e un cervello si aggregherà nello spazio, senza essere attaccato a un corpo”.
Boltzmann, caro fratello, ma cosa avevi nel TUO cervello quando ti venivano questi pensieri?
(6)

P
“Ci sono più cose in cielo e in terra, zio, di quante ce ne siano in terra e in cielo”.
E no, questa non aveva proprio logica, ma un po’ di misticismo ci voleva, a questo punto.
(7)

S
“Niente”.
(cit.)
(8)

U
“Il numero di tutti gli atomi presenti nell’universo è superiore a quello delle combinazioni che i suddetti atomi possono assumere, stanti le leggi inderogabili della fisica”. Questo lo dico io.
E brutalmente vuol dire: c’è un solo universo possibile, e per nostra sfortuna è questo.
(9)

V
Ricorda che cella vuol dire prigione, almeno nella tua lingua. Nella mia, se di lingua si può parlare, non so.
(II)

Z
Cioè Borges, Cortázar, Dick e basta. Borges perché sempre; Cortázar per il gioco; Dick per l’universo; e basta.
(1)

*****

L’immagine di copertina è un frame da Adventure Time.