L’aria si fa inspiegabilmente limpida. Il luogo è un ossimoro, ora.
“Si va avanti qui, se davvero si va e non si sta fermi.” Osserva Fharidi, il viso abbagliato dalla luce.
“Si è moltiplicato tutto! Il campo è uno specchio.”
La palla intonsa e bianca e la sua riproduzione nello specchio, a centrocampo. Quel che resta di Bloom controlla che le squadre siano schierate. Non manca nessuno.

Due fischi. Platini la dà indietro, la palla rotola sdoppiata, mentre le due squadre ondeggiano. Joyce tocca per Fedor, che imbastisce la prima azione d’attacco – la sua ultima chance, ora che lo Zar è morto. Moresco lo contrasta, lo contrasterà sempre se entrambi arriveranno lì dove sta per andare la pelota. Anche Nietzsche va in chiusura su Fedor, i due si guardano – anche i loro duplicati nello specchio si guardano –  “Ora che non c’è più lo Zar, chi è l’idiota?” dice con gli occhi il polacco. Fedor non si lascia distrarre: prima una veronica a saltare Moresco – “Siamo ancora in attesa di questo talento!” chiosa Fharidi, e il suo doppio non muove labbro. Poi quadruplo passo di Fedor – manco Nureyev! Nietzsche resiste, la palla va lungo la fascia, al centro Hemingway corre che pare un toro, Fedor in extremis riesce a imbeccarlo in profondità tra i due centrali. Pasolini, estremo difensore, copre lo specchio della porta. È calcio d’angolo.
Omero – tutti e due – sono una furia, lo specchio sotto i suoi piedi s’incrina. – “Che dice?” domanda Quijano, distratto, vanesio; “Stia attento quell’Omero a non anticipare i tempi, sempre a dire cose che bisognerebbe tacere. Sempre tutto fuori!” Fharidi ride: “Infingardo!  Finto ispanico! È questo posto, lo so. Come siamo finiti qua dentro?”

Platini il piemontese calcia d’interno a giro. Basso, sul primo palo a cercare l’inserirsi di qualcuno, il rimbalzo e l’inganno. Eraclito sul primo palo guarda per terra e non si lascia irretire. Resta fermo e lascia sfilare. “Che qualcuno altro s’inganni pure – io sono piuttosto l’ingannatore o annodatore d’enigmi sciolti” pensa o dice l’Efesio. Fedor, il prigioniero, invece, ci crede perchè crede, e si lancia. La pelota rimbalza, il riflesso di quella si alza e si schiacchia per terra in un gioco continuo. Fedor c’ha creduto e non ha capito.
“L’inganno non è un abbaglio” Quijano da sopra decreta sentenza. Fahridi, di fianco, di colpo respira pesante e ripetuto. Cenni di schiuma giallazza gli addensano le gengive – è tutto sputi e gorgoglii.

Fedor c’ha creduto e non s’è accorto del gioco: liscia la pelota ma non la sua ombra – per un attimo – e rimane per terra, la destra tesa allo sforzo vano. Quella, la pelota, sfila via sullo specchio dell’area piccola, finchè Nietzsche, Monsieur la Moustache, spazza in controbalzo – lontano.

“L’inganno…” Fahridi ripete schiumando di bocca. Si tiene la testa con le mani, stretta per farla diritta, le vene sui polsi si fanno più verdi, tali li occhi.
“Quijano!” grida ed è un appello da lontano, da sotto. “Quijano! È venuto…”
Alonso Quijano lo guarda di mezzo riso col bambalas in mano: “Arabo! Se stai per scorreggiare di sragione dimmelo subito…”
Fahridi cade. Il sopracciglio si apre. La bocca si apre: “Quijano è venuto… l’ospite…”
“L’anfitrione?” Quijano si riempie il polmone di bambalas, serio. Si abbassa inquieto a Fahridi fino all’orecchio. “È lui?”
“Mi è entrato dentro, Quijano. L’ospite, lo specchio. L’idea. Uccidilo, fallo parlare.”
Fharidi giacente per terra, “l’ospite” risuona Quijano. Gira le maniche sulle spalle, si strofina e si sputa le mani. “Lo specchio, l’idea. Vieni fuori!”

L’inganno o il suo doppio? La pelota scivola confusa più ancora degli altri, nessuno pare in grado di domarla. Nemmeno Diego. C’è qualcosa che sfugge, una trappola o due. Nemmeno Omero. Grida, mastica e sputa – e non capisce.

“Vieni fuori, Plato!” Quijano si veste infine d’ispanico e si prepara ai mulini a vento.
“Plato! Che cos’è questo nome – il mio nome? E dove sono il fuoco e l’ombra?” Non pare la voce di Fharidi, ormai; non pare, in verità, neppure una voce umana. “E le tue catene?” dice, sgranando brutalmente gli occhi e voltandosi di scatto verso il campo specchiato. Tutti, in campo, ora sono legati con ceppi di ferro al suolo.
Quijano resta in silenzio. Il fervore iniziale cede il posto a una serafica calma. Fharidi posseduto ora piange. “Il mio amore, il mio amore è stato ucciso. Io so chi è stato. Quello lì, l’aedo. Io l’ho visto dentro lo specchio piegarsi in quel fetido torrione sul mio adorato, Georg Wilhelm Friedrich, la mia più recente Inkarnation. Ricordo ancora quando seduto sulle mie ginocchia tratteggiava vortici e tempeste, allora era solo un’ideuzza di filosofo.” Un istante di silenzio commemorativo. “Me l’ha ucciso, capisci, sottratto. Assassino!” Urla, un attimo dopo, disperato, ancorato a quel corpo interamente umano – si ostina a continuare la farsa dell’idea che si incarna.

La pelota resta ferma. Il solo rumore che si sente, un istante dopo l’incatenamento, proviene dallo specchio, che inizia a incrinarsi leggermente per il peso degli uomini sul campo, i loro doppi invece slegati, eppure imprigionati al di sotto della superficie dello specchio – e non si capisce più chi imita e chi è il simulacro. Omero non smette più di ringhiare, latra. Dante, che si trova incatenato al suo fianco, lungo la linea di demarcazione del campo, rompe l’indugio e inizia a recitargli quei suoi famosi versi su Cerbero.
“Dici a quel cane infernale – Plato sardonico, ammiccando da sopra all’Alighiero legato sul campo coi ceppi – che il suo verso qui non funziona. E anche il tuo mi disgusta: mettere Cristo prima di me, che pazzia!” Con le mani aperte li avvolge tutti sul campo di gioco: “Sappiate che non conosco tentazione di musa. Io parlo, perché sono dentro ai segreti – e dietro di essi. Io ho rinchiuso le muse nel deserto. La loro perdizione è stato il vostro scandalo.”
“Vuoi ad ogni costo rubare il mestiere ai poeti? Eunuco impostore!” gli sputa in faccia Quijano, si vede riflesso nella saliva – persino quella ha il suo doppio. Plato ride in un ghigno. “Quanto ancora bisogna attendere che il tuo inganno si mostri?” conclude l’ispanico, irretito dalla messa in scena platonica.

Subito l’aria diventa bruna, indefinita. Rimbaud impallidisce e sviene. Dalle scarpe bucate escono i piedi sporchi, tutti camminati e scorticati. De Sade se n’accorge e s’illanguidisce, maledicendo le catene che lo serrano. Un grande fuoco appare nel centro dello specchio. Tremano tutti, il sangue si gela nelle vene. Anche Dante, canonicamente, sviene. Lungo i bordi lo specchio si frantuma e dalla ferita vengono fuori larghe mura di pietra, che si congiungono in alto, formando una volta a botte. Gli uomini in campo, di colpo, si ritrovano incatenati ai muri della caverna, che ora si erge sullo specchio, e insieme a loro pare che sia asserragliata anche la speranza di portare a termine la partita. La luce del fuoco scaturisce le ombre immobili – e ogni uomo ha accanto ormai solo l’ombra del suo avversario.
La pelota soltanto è libera, e sembra ancora più levigata e quasi brillante di luce propria. Nietzsche la osserva, la pelota è lì davanti ai suoi occhi, ma le catene gli serrano polsi e caviglie. Moresco pianta l’occhio buono sui ceppi del Baffo: “Prova a chiedere a Calasso lo scotto per tutto quanto – o almeno una prefazione, un quarta di copertina.” Pare che dica, in silenzio. Poi irrefrenabilmente, diabolicamente inizia a ridere.
Schiller dal canto suo fischietta l’Inno alla gioia, e la sua ombra per il crepitare della fiamma pare che danzi di fianco a Mozart piangente. Mentre la testa di Bloom già pregusta la stroncatura, sbava.
L’ispanico, però, non si lascia atterrire. “Una caverna – dice – può nascondere mostri o tesori.”
L’ateniese ride ancora una volta. “La caverna è il luogo dell’ombra perenne.” Sentenzia, lisciandosi il mento una volta di Fahridi. “Mentre ciò che non proietta ombra, che non ha residui, ma è liscio e intonso, l’idea, non conosce menzogna. Quella che tu chiami pelota, e che già una volta hai chiamato parola, è la mia idea.”
“La tua parola, intendi la tua fiducia? Questo specchio-caverna? Eppure questo luogo di ostinazione e solitudine è un’illusione, lo sappiamo tutti e ognuno sta al gioco. Nessuno resiste più!” Risponde Quijano, mentre s’avvicina a Fharidi e si riverbera nella mente: siamo già pronti a tentare ogni cosa…
“Io sono l’arbitro ultimo, la mano del Demiurgo. Io sono il capolavoro.” Il corpo di Fharidi si scuote, vibra in ogni sua parte, quasi esplode.
“Il tuo inganno è stato un capolavoro. Ma qui ognuno lo ha cercato, lo ha tentato. Qui tutti siamo Titani, non solo tu!” Quijano non cede, ed è sempre più vicino a Plato. “Il tuo è un capolavoro di epilessia.”
“Dove vai?” gli chiede entusiasta “Non ti basta il discorso, vuoi provare anche la mia forza, la mia educazione?”
Quijano tentenna. Il nipote di Crizia imperversa, ride e muove qualche passo in avanti. L’aria si elettrizza, c’è silenzio. Tutti attendono in catene lo scontro che si prospetta davanti.

I due si studiano. Saltellano per sgranchirsi gambe e braccia, facendole mulinare nell’aria. Quijano, all’occorrenza, estrae il suo elmo di Mambrino: una scodella per le offerte funebri. Se lo calca in testa. Plato lo sbeffeggia nitrendo.
Il loro corpi turbinando saltellanti si avvicinano, si sfiorano. I loro nasi si annusano.
“Dimmi” non riesce a frenarsi Quijano “ che cosa senti. Quest’odore… la tua paura… lo senti?”
Plato serra i denti, sbuffa, pare un toro – pare Giorgios Foremanios! Non attende più, l’anima irascibile ha il sopravvento. Plato, il corpo irredento di Fahridi, colpisce per primo, dritto al fegato di Quijano. È la sede, quella, dell’amore e dell’odio. Dell’odio, soprattutto. Quijano ruggisce e punta i piedi. La caverna trema, piccoli sassi cadono dal soffitto. Una frattura profonda inizia a diramarsi nello specchio, che a sua volta crolla verso il fondo. La pelota cade nella ferita.

La caverna si sgretola e le ombre con quella. Si allungano, cadono nella ferita. Sotto è la via,  la speranza infuocata della pelota-parola. Sotto, più in fondo, è la fine dell’idea e della caverna. I pugni di Quijano sul volto di Fahridi che è Plato, impossessato, aprono la strada. Sulla fronte larga, un destro. Coi piedi veloci si sposta di lato e colpisce nel fianco. Plato si accascia, come attendesse il colpo di grazia, ma Quijano è paziente, ed è cavaliere. E attende che l’ateniese nel corpo dell’arabo ritorni in piedi.
“Vedi, Plato” le parole sudate di Quijano “la crepa nella caverna.  La pelota-parola rimbalza e rimbalza ed è andata più in fondo. Il partido  è un gioco che non può avere fine.” Punta la scodella Mambrina allo sterno del Plato, e spinge con la capoccia al cuore del capolavoro. Plato ricade supino e Quijano vi si fionda. Spinge con le mani nella gola del Plato. Urla: “Chi sei, spirto del cazzo?”
E quegli a lui: “Sono Plato, il mio è l’inganno perfetto, la fine dell’inganno!”
Quijano ride sbuffando, gli stringe la linguetta sopra le tonsille. “Solo il tuo inganno finisce, mentre l’inganno non finisce!” E schiaffeggia e sputazza. “Da dove vieni, demiurgo?”
Sputando bile e sangue l’ateniese: “La mia casa è lo specchio, la radura dell’essere.”
L’ispanico inforca le nari di Plato con l’indice e il medio. “Esci, allora!” lo trascina per lo specchio-caverna correndo a precipizio. Urla, esulta. Plato perde gli spiriti poco a poco, si fa trasparente come l’idea, ma Quijano non se ne addona o non vuole addonarsene: “Torna nella tua tana merdosa! L’inganno deve continuare!” Quijano si strappa i vestiti di dosso e improvvisa una danza dell’urina, ululando.

Sul campo specchiato la crepa si allarga, uno a uno i campioni, i Titani, vi finiscono dentro. E cadono: Nietzsche e il suo baffo infuocato; Fedor l’imprigionato e Moresco dal riso sdentato; De Sade, l’uomo cervello, culo e pisello; Eraclito il discorso-conflitto; Pasolini lo spirto pompino; e Diego, el pibe de oro; e Platini, il piemontese dal piede astuto; e l’Alighiero o l’esilio; e tutti gli altri. A precipizio scendono nella ferita, da cui di tanto in tanto vengono lingue di fuoco. Quattro carcasse invece restano immobili nei ceppi, sullo specchio crepato: Mozart, Rimbaud, Hemingway e Dalí. Per qualche motivo i loro corpi non vanno oltre l’inganno dello specchio. Non possono, non vogliono, non devono o non sanno.

Quijano si sgrulla l’uccello con pezzo di specchio. Anche l’uccello ha il suo doppio – si pensa Quijano, io che mi rado con un machete…La scodella ancora sulla capoccia, lancia due urli finali, si fionda sul corpo del Plato, freddo per terra, per l’ultimo colpo. Per sfizio e cazzimma. E così, per cazzimma, Fahridi ritorna a sè stesso. Si alza, sporco e grondante – di muchi, di sangue e sputazza – e lo scansa. Da dietro lo schiaffeggia sulla nuca. “Grazie, ispanico, mi hai tolto da dentro il batterio ateniese. Ora pero stai esagerando.”
Ridono. Quijano e Fahridi, l’arabico e l’iberico. Si guardano e s’abbracciano, poi si lanciano nel buco, nella ferita aperta.

***

Repetita iuvant:

Scontro al vertice I, II, III, IVque.